ALBERTO SCIAMPLICOTTI

Genti del Nord


Questa nuova giornata è iniziata con un cielo estremamente variabile: le nuvole si aprono, lasciano passare un fascio di luce solare che si riflette sulla neve con effetti cangianti ma poi si richiudono lasciando tutto in un’ombra cerulea. Verso il mare, dove il fiordo si lascia penetrare dall’acqua, il ghiaccio riflette le ombre delle nuvole che corrono verso Barentsburg e la città di Longyearbien. Oggi dovremmo smontare il campo e avviarci lungo il ghiacciaio fino al mare, in modo da essere raccolti dalla Polor Girl, la motonave rompighiaccio che ci riporterà indietro. Prima però c’è il tempo e la voglia per un’ultima discesa: tanto in ogni caso l’appuntamento è per il pomeriggio e una volta smontate le tende e impacchettato tutto rimangono da percorrere poco meno di tre chilometri per arrivare al margine del fiordo, lì dove il ghiacciaio precipita in seracchi scomposti sul pack. Ancora una volta ci dirigiamo allora verso il Polhøgda. Risaliamo a dorsale che arriva fino al colle che separa le due cime gemelle, poi prendiamo a salire questa volta per la cresta di sinistra dirigendoci verso la cima principale. Ci fermiamo sotto le rocce prima della cuspide finale. Siamo avvolti in una fitta nebbia che inghiotte tutto. Paolino, seguito dai soliti e fidati pards, prosegue lungo il filo di cresta per arrivare alla vera vetta qualche decina di metri più in alto. La neve è buona, basta fare delle curve lente e strette e nonostante la scarsa visibilità si riesce a lasciare una traccia decente. Alla fine del canalone ci fermiamo per aspettare Paolino e i suoi, scesi per un altro canale. Poi giù, verso le tende da smontare e le slitte da riempire per un’ultima volta. Quando ci incamminiamo verso la costa è il primo pomeriggio e i pochi chilometri da percorrere scivolano dietro le nostre spalle con la dolcezza della leggera discesa che conduce al mare. Sulla destra il ghiacciaio termina con un’imponente seraccata che non cade né su terra né sul mare aperto, ma sul piano ghiacciato del pack. Incrociamo le impronte di un orso bianco, le prime tracce da quando siamo partiti di quest’animale che ci ha condannato a una sorveglianza continua nelle lunghe notti artiche. Poi, con la precauzione di slacciarsi la fibbia dello zaino e della cinta ventrale della slitta, si rompesse il ghiaccio non sarebbe piacevole essere trascinati verso il fondo dal peso dei nostri bagagli, ci avventuriamo sul pack. L’impressione è forte: la slitta scivola leggera sulla superficie piana del mare solidificato. Qua e là tracce di foche e di uccelli attraversano il nostro percorso, dirigendosi tutte verso il bordo ghiacciato e il mare aperto. Intanto la motonave sta ultimando manovra per accostarsi al pack e presentarsi così puntuale al nostro appuntamento. Mentre la scaletta viene calata, percorriamo gli ultimi cento metri in fila indiana. Quando arriviamo sotto le fiancate d’acciaio c’è solo il tempo di caricare slitte zaini e sci e di scattare poche foto. E’ solo dopo, quando la Polar Girl aumenta il numero dei giri del motore e manovra ruggendo per staccarsi dal pack e dirigersi al largo che mi accorgo  della coppia di sciatori, un ragazzo e una ragazza, scesi nel frattempo e rimasti sulla banchisa. Hanno una sola slitta, carica fino all’inverosimile e con un fucile di traverso al mucchio dei bagagli: la loro evidente intenzione è quella di trascorrere un periodo in solitudine vagabondando fra i fiordi e i ghiacciai. Allora un groppo mi stringe la gola: sento di invidiarli, di invidiare quell’intimità che vivranno nei giorni a venire e che li porterà a sentire il respiro del vento insieme, quel loro viaggio pieno di promesse che vanno iniziando mentre il nostro sta finendo, quella giovinezza senza pensieri che a me, meridionale d’europa, sembra essere figlia delle genti del nord…


SVALBARD (13)

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