ALBERTO SCIAMPLICOTTI

La cittadina di Peppone


Quando la motonave si allontana dal piccolo porto di Longyearbien, gli zaini, gli sci e tutto l’occorrente per il nostro viaggio è accatastato sul ponte di poppa. In fondo, vicino alla murata, ci sono le slitte affiancate l’una all’altra. Sono di due modelli, le pesanti indeformabili, costose e robuste Fjellpulken, costruite in vetroresina, e le più economiche slitte in pvc dell’americana Paris-Expedition, leggere ma meno robuste. La vera differenza, per questo viaggio, la fa però il sistema di traino dei due modelli: per le slitte in resina è costituito da due barre rigide e ammortizzate, per il modello economico sono previsti invece solo due robusti cordini. Molti di noi non hanno mai tirato una slitta e la curiosità è tanta. Nella mente ancora una volta tornano le foto in bianco e nere e le xilografie raffiguranti gli esploratori artici: Nansen, Amundsen, Scott ma anche il più attuale Børge Ousland (bellissimi i suoi racconti sulle traversate in solitaria dei Poli!)

Davanti alla prua della motonave volano intanto dei grandi uccelli bianchi, forse stenelle artiche. Inanellano loop e virate strette a pochi centimetri dall’acqua, poi improvvisamente prendono quota per 4 o 5 metri per tuffarsi in picchiata fra le onde, le ali strette sotto il corpo, riemergendo spesso con un piccolo pesce chiuso nel becco.

Navighiamo a circa 300 metri dalla costa. La neve ancora ricopre le colline che scendono ripide verso il mare. Solo le dorsali che contornano i canali sono più scure, dove la terra e la roccia cominciano ad apparire, liberate dal manto bianco dall’azione del sole e del vento.

Poi appare un piccolo insediamento, due o tre case di pochi piani realizzate in legno. Un vecchio sito minerario, ci dice Havard la nostra guida norvegese, utilizzato anche come ricovero di pescatori dopo la fine delle attività estrattive.

Il cielo, oltre un promontorio, è segnato da una striscia di fumo nero che sale lento nel cielo.

“Barentsburg” indica Havard.

Quando scendiamo a terra per visitare la città russa intitolata all’esploratore artico Barents è come passare la soglia di un varco spazio-temporale: dal calendario scompaiono improvvisamente gli ultimi 45 anni e sembra di essere ancora nell’Unione Sovietica degli anni’60. Mi viene in mente il film “Il Compagno Don Camillo” quando il sacerdote di Brescello e il suo amico-rivale Giuseppe Bottazzi partecipano a una gita premio in Urss per compagni meritevoli. C’è solo più grigiore e molta più malinconia. L’illusione di lavorare per un mondo nuovo e diverso sembra essere scomparsa per sempre, lasciando il posto alla sola consapevolezza di come sia difficile vivere a queste latitudini. Chi sceglie di venire a lavorare qui, ora lo fa solo per la sicurezza di uno stipendio leggermente più alto di quello percepito altrimenti in patria: ma la difficoltà del lavoro in miniera, e i suoi pericoli rimangono tutti, privi però degli ideali di riscatto sociale.

Mentre camminiamo fra le case di Barentsburg, molte delle quali oramai abbandonate, ci viene raccontato dei difficili inverni di qui, quando spinti dal freddo le famiglie di orsi vengono a cercare calore e cibo rifugiandosi nell’intercapedine bassa di queste case costruite su palafitte infisse nel terreno. Sul frontone di diversi edifici ci sono ancora affreschi inneggianti agli eroici lavoratori sovietici: minatori a torso nudo con casco e piccone, lavoratori metallurgici, contadine dai capelli tenuti legati da un fazzoletto, tutti dipinti in puro stile realista. Ci vengono indicati con orgoglio la piscina di acqua di mare riscaldata più a nord del mondo, l’ufficio postale, il museo dell’esplorazione polare, il piccolo ospedale locale e con un poco di ironia, anche il busto di Vladimir Ilich Uljanov, in arte Lenin: eppure quello che sembra più rappresentare il piccolo mondo di Barentsburg sono i due minatori, dalle giacche di pelle nera, che ci attendono sulla via del ritorno. Davanti a loro hanno sistemato un piccolo banchetto su cui espongono la mercanzia che sperano di vendere: spillette dell’ex Urss, colbacchi, matrioske, orologi Raketa, vecchie medaglie, i simboli di un mondo che non esiste più… (continua)

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