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Mirella Tenderini
SAHARA
Al ritorno da uno dei tanti viaggi nel deserto che quasi ogni anno faceva con suo marito Luciano, Mirella Tenderini scrisse questo racconto. Mirella e Luciano, per vari motivi, hanno entrambi amato i deserti dell’Africa. Sembrava quasi che da quelle vastità riuscissero a trarre ogni volta nuove forze per affrontare la vita di tutti i giorni. Sono passati quindici anni dalla scrittura di questo racconto. Il mondo è cambiato. L’Africa è cambiata. Sono cambiati anche gli uomini. Luciano, da qualche anno ormai, ha intrapreso il viaggio più impegnativo della vita di ognuno: altri luoghi, altre vette, altre vastità da capire esplorare e scoprire. Mirella invece continua a scrivere stupende storie e vicende di uomini e donne che hanno vissuto il mondo e che hanno cercato di dare un senso, il senso più profondo, alla loro esistenza.
Solo il deserto, in qualche modo, è rimasto simile a se stesso nei suoi silenzi, nel suo vuoto, nella sua grandezza.
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Quando si dice “deserto” si pensa immediatamente al Sahara. La parola Sahara in arabo definisce il vuoto, il nulla. Il Sahara è lo spazio vuoto che collega paesi e civiltà diverse ai quattro punti cardinali del continente africano. Vuoto, ossia disabitato, ma ricco di vita, solo che si osservino le impronte lasciate sulla sabbia da innumerevoli creature. E nemmeno così disabitato, perché nel bel mezzo del deserto si trovano villaggi, città, intere popolazioni che hanno costruito nelle oasi in cui vivono giardini fertili e comunità fiorenti. Come nello Mzab, nel sud-ovest algerino, dove una comunità berbera islamica che si era staccata dalla pratica religiosa ufficiale, perseguitata e poi cacciata, arrivò nell’XI secolo dopo un lungo cammino e lì si fermò, stremata, decimata dalla fatica. Nel deserto di pietra i Mozabiti scavarono pozzi profondi fino a che trovarono l’acqua. L’acqua nel deserto è la vita. Nel mondo è la vita, ma noi non ci accorgiamo di quanto sia preziosa, così come non ci accorgiamo di quanto è preziosa l’aria se non quando l’eccesso di sostanze inquinanti da noi stessi prodotte ce la guasta e cominciamo a temere per la nostra salute.
I Mozabiti costruirono cinque città dall’architettura così perfetta, così armoniosa nella sua essenzialità dettata dalla pura funzionalità da suscitare l’ammirazione del più innovativo architetto moderno, Le Corbusier, che ne copiò le linee e le forme nella sua celebre cappella di Ronchamps. Attorno alle cinque città dello Mzab oggi si estendono vasti giardini, frutteti, campi di grano e palmeti che assicurano benessere alla popolazione. L’acqua, primaria fra tutte le risorse, è distribuita equamente fra le famiglie che si dedicano alle colture, in proporzione alle forze lavoro. Nelle città prosperano le attività artigianali e i commerci e non esiste povertà estrema o mendicità, perché la comunità, che non tollera ostentazioni di ricchezze, meno ancora sopporterebbe di lasciare qualche suo componente nell’indigenza e provvede a garantire un’esistenza dignitosa a chi rimane senza risorse. Le donne dello Mzab circolano per strada coperte da capo a piedi da un mantello bianco di lana leggera, che tengono aperto appena davanti a un occhio per vederci. Ma le ragazze cominciano ad andare a scuola come i ragazzi e a frequentare con loro l’università: a Ghardaia, il capoluogo della regione, sorge un’università dove vi è un istituto di biologia agraria d’avanguardia frequentato da studenti che giungono da tutto il Nord Africa.
Più a sud, a Adrar, prima del colpo di Stato del 1992, erano stati scavati pozzi fino ad estrarre acqua dall’immenso giacimento di acqua fossile che si estende in profondità sotto tutto il continente africano. Nel deserto erano stati ricavati campi fertilissimi che davano più raccolti l’anno, e le terre venivano assegnate ad un prezzo poco più che nominale ai cittadini algerini disposti a trasferirsi e a investire nell’attività di coloni. Ce ne parlava un ingegnere di Orano, nell’ombra riposante di un minuscolo ristorante a Timimoun, nel Gourara - l’Oasi Rossa a 530 chilometri a sud-ovest di Ghardaia. Seduti a gambe incrociate attorno allo sgabello basso e largo su cui erano appoggiati i nostri piatti, conversammo a lungo con lui e sua moglie. L’ingegnere aveva lasciato un lavoro redditizio a Orano e si era trasferito ad Adrar con tutti i risparmi della famiglia; in un anno aveva già avuto molta soddisfazione dai primi raccolti. La moglie abitava ancora a Orano con i figli che frequentavano il liceo. Non si vedevano da un anno e avevano deciso di incontrarsi a Timimoun. Erano una bella coppia di mezza età, lui in djellabah bianco e lei in abiti occidentali. In perfetto francese ci raccontarono i loro progetti per il futuro, quando tutta la famiglia avrebbe potuto trasferirsi ad Adrar, che l’ingegnere descriveva come un paradiso, vantando con orgoglio i suoi meloni dolcissimi, i pomodori enormi, profumati, saporiti... Chissà come vanno le cose adesso ad Adrar. Non siamo più tornati in Algeria da quella volta. Sapevamo dell’enorme riserva di acqua fossile dell’Africa. Ce ne aveva parlato per la prima volta Alfonso Vinci, ben noto come alpinista, molto meno per la sua attività di geologo. Ci aveva colpito sapere di una risorsa immensa come quella e fantasticavamo immaginando tutti i problemi dell’Africa risolti... Ma sarebbero davvero risolti? O non succederebbe piuttosto che l’acqua cavata da una parte venga a mancare da qualche altra? Non è certo una questione di quantità ma di equilibrio... In Libia sono state fatte grandi opere per portare l’acqua fossile del deserto nelle città ammodernate e agli impianti industriali sulla costa e pare che sia questa la causa dell’inaridimento di pozzi a centinaia, migliaia di chilometri di distanza...
Non voglio pensare che possa mai mancare l’acqua a Siwa! Che ne sarebbe delle sorgenti di acqua fresca e di acqua calda fra le dune di sabbia e all’interno dei giardini dove i rami del melograno si intrecciano agli ulivi? Siwa si trova in territorio egiziano proprio sul confine con la Libia e si estende per qualche decina di chilometri in mezzo alle sabbie che ventisei secoli fa inghiottirono un intero esercito. Cambise, re della Persia, lo aveva inviato per assoggettare l’oasi, importante centro religioso - e quindi politico - per la presenza di un oracolo di Amun. Chi avesse conquistato Siwa avrebbe dominato l’Egitto. L’esercito marciò attraverso le sabbie ardenti del deserto ma non arrivò mai a destinazione e non se ne seppe più nulla. Travolto forse da una tromba di sabbia, inabissato, sparito. Alessandro Magno ebbe maggiore fortuna. Anch’egli, dopo la conquista della costa egiziana e la fondazione di Alessandria, si recò a Siwa per consultare l’oracolo di Amun - divenuto Zeus Amun a suggello dell’unione tra greci e egiziani - e a farsi dire che lui, Alessandro era figlio perlappunto di Zeus e perciò legittimo sovrano dell’Egitto. L’oracolo non lo deluse. Ci sarebbe mancato altro! Avrebbe provocato un incidente diplomatico di dimensioni storiche.
Dall’altra parte del deserto che gli egiziani chiamano Deserto Libico o Occidentale (perché è a ovest del Nilo) mentre è l’estremo lembo orientale del Sahara, si snoda, parallela al Nilo, una catena di oasi, distanziate qualche centinaio di chilometri l’una dall’altra. Nella principale, Baharyya, è stata scoperta di recente una necropoli di epoca romana, con migliaia di mummie perfettamente conservate, interamente ricoperte di una lamina d’oro. Nonostante se ne sia parlato ampiamente, la necropoli non ha attirato molti visitatori. Per fortuna le centinaia di migliaia di turisti che affollano ogni anno l’Egitto si riversano tutti negli hotel di cemento della costa del Mar Rosso e delle località archeologiche più famose lungo il Nilo, e a Baharyya e nelle altre oasi del Deserto Occidentale si continua a vivere una vita tranquilla. E’ una vita semplice ma non misera. La vera miseria è quella ai margini della ricchezza, nelle periferie delle grandi città o nei villaggi attorno ai siti turistici, dove l’abisso tra ricchezza e povertà sembra incolmabile e la visione di certi quartieri stringe il cuore e fa vergognare del proprio stato di immeritevoli fruitori del benessere del mondo.
Altre oasi sono meno felici e altre popolazioni del deserto vivono meno pacificamente: gli abitanti dei villaggi assediati dalla sabbia che copre campi e case e si divora tutto, i nomadi costretti ad abbandonare un costume di vita che da secoli è il solo che conoscono e che sanno e vogliono praticare. Il Sahara è una terra magica di straordinaria bellezza, ma un inferno per viverci se mancano le condizioni minimali per l’esistenza.