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Mirella Tenderini
SAHARA (2)
La prima volta che vedemmo il Sahara era verde come un prato. C’erano state piogge eccezionali in Sudan, le strade che portavano a Khartum erano allagate e interrotte e il deserto tutto intorno alla città, che sorge alla confluenza del Nilo Bianco col Nilo Azzurro, era coperto da una vegetazione effimera, lieve come una peluria, regalo dell’abbondanza delle acque del cielo. Nelle piazze della città ristagnavano pozzanghere grandi come laghi e per tutta la notte sentimmo gracidare, anzi muggire, una rana-toro, che dalla voce immaginavamo grande come un elefante e ci deluse poi, quando la vedemmo, grossa appena come un topolino. Anche il deserto piatto, di terra, ci deluse, al primo momento; poi sparì il verde, ci sorprendemmo ai mutamenti di colore nel corso della giornata e alle nostre ombre lunghissime, scure e nette sulla terra rossa nell’ora del tramonto... A quel punto il deserto ci aveva già stregato. Tornammo a Khartum dopo molti anni. L’aeroporto di terra battuta circondato di filo spinato era stato sostituito da una costruzione moderna di eccessiva magnificenza, megaprogetto del famoso architetto italiano Paolo Portoghesi. Non c’era più, come la prima volta, il cecchino che sparava un colpo ogni cinque minuti con un fucile antiquato ai falchi che volteggiavano numerosi sopra la pista rischiando di provocare danni facendosi risucchiare dalle bocche di aspirazione dei motori a reazione (qualcosa di simile era successo anche a Linate in quegli anni, ma gli uccelli erano piccioni e non mi ricordo più come vennero eliminati; di certo non a fucilate). Attraversammo il deserto su una corriera affollata in un viaggio lentissimo senza stancarci mai dell’apparente monotonia del paesaggio, fino alle piane fertili di Kassala. Dall’alto delle montagne di basalto sopra la città guardavamo il verde delle colture confondersi con l’ocra del deserto e sfumare in un piano infinito che si congiungeva col cielo all’estremo orizzonte.
Eravamo andati a Kassala per arrampicare su quelle montagne che avevamo visto per caso in una fotografia tanti anni prima; ma c’era la guerra in Eritrea e a Kassala, sul confine, vigeva il coprifuoco: al tramonto tutti dovevano essere in città e la polizia controllava. Non potemmo accamparci sulla montagna. Andavamo all’alba fino alla base con un camioncino che passava a prenderci, salivamo fino al punto più alto raggiungibile prima che il sole arroventasse la roccia, poi aspettavamo rannicchiati all’ombra di un masso che il versante nord fosse completamente in ombra e le rocce si raffreddassero un po’ e poi ridiscendevamo di corsa per arrivare in città prima del coprifuoco. Sulla roccia esposta al sole non era possibile appoggiare le mani e bollivano anche i piedi protetti dalle suole e dalle calze - altro che arrampicare! Il progetto era di dormire sulla montagna e sfruttare le prime ore del mattino per scalare le torri lisce e arrotondate... Ma la guerra è la guerra e con la polizia sudanese avevamo già avuto guai a sufficienza per azzardarci a eluderla.
La montagna sembrava abitata solo dalle aquile e dagli avvoltoi che giravano in cerchi poco sopra le nostre teste, ma un giorno vedemmo un gregge di capre e il pastore si avvicinò a noi chiedendo dell’acqua in tono perentorio. “Moia!” - Acqua. In Africa chi ha bisogno di acqua la chiede e chi ne ha non può rifiutarla. E’ la regola sacrosanta. Il pastore aveva uno spadone lungo e largo mezzo arrugginito ma dall’aspetto temibile e ci spiegò a gesti che serviva per cacciare via le aquile che insidiavano le capre.
Quella volta non arrampicammo ma le montagne di Kassala sono uno dei ricordi più belli dei nostri vagabondaggi africani. La prima volta, e per molti anni in seguito, siamo andati in Africa per scalare montagne: il Kenya, il Kilimanjaro, l’Atlante, ma soprattutto le montagne dell’Hoggar, della Tefedest e del Tesnou, nel Sahara algerino. Mio marito, guida alpina, portava clienti a arrampicare; più spesso si andava con pochi amici e anch’io salivo sulle montagne fin dove riuscivo ad arrivare. Era bello salire su montagne dove non esistevano sentieri, cercando la via più logica. Era bello sapersi soli e attenti a che non capitasse niente a nessuno di noi, perché non potevamo contare sul soccorso di nessuno. Era un legame in più che cementava l’amicizia, ma la cosa che maggiormente ci accomunava era il gustare insieme e con la stessa intensità ogni momento di quella bellezza infinita che ci trovavamo attorno. La roccia, la sabbia, il cielo blu come in alta montagna; i cambiamenti di luce, il freddo della sera e le stelle enormi e lucenti sopra la nostra testa di notte.
Dormiamo ancora sotto quelle stelle nei deserti che continuiamo a visitare noi due soli, non più soltanto per scalare le montagne ma per il deserto in sé. In fondo il deserto è una dimensione orizzontale in cui ritroviamo tutte le emozioni che dà il mondo verticale della montagna. La solitudine, la bellezza della natura e il riuscire a gustare le cose semplici e essenziali. Il piacere di riposare dopo la fatica, di bere dopo la sete... Ci si rende conto che nella vita di tutti i giorni possediamo troppe cose, usiamo troppe cose e non tutte sono cose di cui abbiamo veramente bisogno o che davvero ci fa piacere avere. Poi, è vero, rientriamo a casa e torniamo ad essere come prima. Ma proprio proprio come prima forse no: un poco, anche se poco poco, siamo migliori. O almeno più consapevoli di quello che abbiamo e più disposti ad apprezzarlo.
(1998)