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ALBERTO SCIAMPLICOTTI
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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Franco Perlotto


LE CAMPANE DI SANT’ANDREA

Il sole picchiava a perpendicolo sulle teste ricurve degli uomini, ricoperte dai grandi cappelli di paglia, come in ognuna delle estati degli ultimi dieci anni. Sui campi a luglio di solito c’era poco da fare. Passato il raccolto del grano, non restava che attendere la vendemmia in collina. Ma il sole era così forte in quei giorni che gli uomini furono costretti ad uscire fino al pozzo vecchio, che sprofondava per trenta metri in mezzo agli arbusti di sorgo, rinsecchiti dalla canicola. Le crepe nella terra disegnavano fulmini tra nubi marroni di un temporale che tutti attendevano come un dono del cielo. Ma in quell’estate nulla fece supporre che si volesse assopire l’angoscia dell’esasperante lentezza dell’erba che ormai non poteva più crescere. Il sudore scivolava lento dentro ai solchi scavati sui volti tesi dei contadini, oppressi dallo sforzo di caricare in schiena i tubi dell’acqua, attraverso l’arso dei campi, su fino agli orti, dove perfino le zucche avevano tentato di appassire.

Quando il sole sarebbe calato, gli uomini avrebbero dovuto irrigare gli orti, altrimenti sarebbe morto tutto. Il comune aveva proibito di usare l’acqua pubblica: ce n’era così poca, che bastava appena per la sete dei cristiani. Quando alla cascina era arrivato l’acquedotto comunale, tutti avevano pensato di aver risolto le fatiche di mille anni. Per fortuna, a nessuno era passato per la testa di chiudere il vecchio pozzo collettivo, che si infilava sotto terra, proprio al centro delle proprietà. La famiglia dei Marana, per pura prudenza contadina, aveva conservato la pompa a mano che si usava da prima della guerra. I tubi di profondità c’erano già, installati da almeno cinquant’anni. Era bastata un po’ di stoppa e una ditata di grasso per riuscire ad avvitarli all’attacco della pompa.
Un secco come in quei giorni non si era mai visto. Negli ultimi tempi, anno dopo anno, il clima era peggiorato. L’aria era diventata così umida che il sudore bruciava negli occhi come l’acido per lucidare gli ottoni.
“Colpa del lavoro in fabbrica”, aveva detto Piero Scorlon. “La pelle assorbe i veleni e poi li ributta fuori”. Tutti lavoravano in fabbrica e avevano scelto la rotazione dei turni. Così bene o male restavano sempre quelle quattro o cinque ore al giorno per portare avanti il lavoro dei campi.

“Don, don, don”, si sentì all’improvviso rimbombare giù per la campagna.

“E’ già mezzogiorno”, sbraitò Leone Berton. “Alle due comincio il turno. Devo andarmene”.

“Don, don, don”, continuò a riecheggiare per i campi.

Leone Berton infilò una mano in tasca dei pantaloni e tirò fuori l’orologio a cipolla. Lo fissò per un lungo istante e mormorò:
“Non sbaglia mai un secondo”. Si portò la mano sotto al cappellaccio e grattò frettolosamente i capelli fradici di sudore e di umidità. Lo sguardo gli si intristì di colpo. Abbassò gli occhi come preso dal magone e scosse la testa. Poi tornò a mormorare tra sé.

“Povero ragazzo”, disse. “Non sbaglia mai un secondo”.

Dal cortile affollato di galline in quel meriggio incandescente, Mario Grumo urlava lo scampanìo come ad ogni mezzogiorno esatto di ogni giorno dell’anno.

“Don, don, don”, gridava. La lingua fuori dallo sforzo, gli occhi sbarrati, la bocca tirata in una smorfia.
“Come farà?”, disse Bepi Marana. “Come farà?”, ripeté subito dopo con più mestizia.

“Non sbaglia mai un secondo”, fece eco ancora una volta Leone Berton. Poi, con un gesto delle spalle si scosse dal tormento. Prese nei polmoni tutto il fiato che poté e gridò:

“Basta. Non ne posso più di ascoltarti”.

“Don, don, don”, gli fece eco Mario, senza nemmeno sentirlo.

La mano ruvida di Bepi Marana s’appoggiò sulla spalla di Leone, mentre dalla bocca non uscì nemmeno un respiro. Gli occhi di Leone brillarono all’improvviso, gonfi come una nube di quel temporale che ormai tutti sognavano. L’uomo si scosse la mano di dosso e a passo veloce infilò la stradina di sassi neri che portava su verso il capitello di Sant’Andrea, poco sotto il cortile della cascina. Gli altri uomini lo seguirono con passo cadenzato, senza emettere una parola.

Da trent’anni ormai, Mario Grumo gridava il suono delle campane tutte le mattine alle sei in punto, tutti i mezzodì e tutte le sere all’ora del vespro. Aveva dieci anni quando all’improvviso s’era messo a strillare nell’aria. Non aveva mai avuto un orologio e da laggiù nemmeno poteva sentire i rintocchi del campanile del paese. Come facesse ad essere così preciso, se l’erano chiesto in tanti. L’avevano portato dai dottori. Da quelli della mutua, perché col lavoro dei campi e con i turni in fabbrica non si potevano permettere altro in contrada. Avevano contribuito tutte le famiglie per cercare di guarire quel piccolo. Il più prodigo di tutti era stato lo zio Leone. Ma non erano riusciti a combinare nulla. Alla clinica avevano detto che non era pericoloso, ma che sarebbe stato così per tutta la vita.
Mario era felice, o almeno lo sembrava. Aiutava la vecchia madre a mantenere in ordine la casa e collaborava ai lavori della stalla. Spesso le aveva detto:

“Sono contento di stare con te. So che mi vuoi bene. Anch’io ti voglio bene”. La vecchia si ripiegava allora ancora di più sulle spalle cadenti sotto il peso degli anni e lo abbracciava. Ma non riusciva nemmeno a buttargli le braccia al collo, tanto lui era grande e lei ormai rimpiccolita dal tempo e dalla sofferenza.

Mario girovagava per le contrade con le braccia penzoloni che scendevano nodose dalle spalle larghe. Tutti lo conoscevano e tutti lo salutavano. In fondo tutti gli volevano un po’ di bene. Era alto poco meno di due metri e quando passava per i campi la sua mole sovrastava chiunque. Ogni tanto s’incaricava di fare qualche lavoro. Andava a raccogliere la legna o aiutava a girare il fieno. Ma poi, all’improvviso, gli veniva in mente di andare a fare qualcos’altro e partiva con la testa ciondolante tra le spalle, immerso in chissà quali pensieri. Gli uomini avevano provato a gridargli dietro, a dirgli di stare lì con loro.

“Un po’ di fatica farebbe bene anche a lui”, aveva commentato Leone.

Mario non si sentiva addosso il giogo di quelle campane che gridava puntuale tra le distese dei campi e nemmeno quello dei volti di compassione dei vicini, quando contorceva la faccia in beate espressioni di felicità. Lui si sentiva appagato, mentre seguiva la madre in giro per l’aia cercando di aiutarla nei lavori più inutili. S’intristiva soltanto quando c’era da tirare il collo a qualche gallina. Non ne aveva mai voluto sapere di assistere al rito della domenica. Non avrebbe mai ucciso una gallina e nemmeno un altro animale, per nessuna ragione al mondo.
Da qualche tempo aveva preso ad andare fino al paese. Scendeva sotto il capitello di Sant’Andrea e tagliava per i campi, così i chilometri diventavano tre invece dei cinque della strada. All’inizio i fratelli si erano preoccupati, ma dopo averlo seguito un paio di volte si erano tranquillizzati. Si fermava per un po’ alla pietra miliare all’incrocio con la strada vecchia, poi passava per la contrada dei Cereda e saliva ansimando fino alla chiesa parrocchiale. Stava lì sul sagrato a guardarsi un po’ in giro e poi se ne tornava a casa. Da qualche mese, la frequenza di quel vagare s’era infittita, ma nessuno s’era più preoccupato.

Dai Cereda c’era una fontana, dove le lavandaie, inginocchiate sulla pietra a sbattere i panni, erano sempre indaffarate in eterne chiacchiere. Mario Grumo qualche volta s’era seduto sul bordo della vasca per osservarle e ascoltarle. Tutte conoscevano quell’omone e di tanto in tanto sentivano il suo scampanio nell’aria arrivare fino a loro. Di lì si poteva sentire anche il campanile del paese che spesso batteva le ore in ritardo. Così da anni ai Cereda la gente si regolava con l’ora di Mario, la più precisa. Le donne facevano sempre volentieri due chiacchiere con lui. “Ciao. Come stai? Dove stai andando?”. Gli parlavano come fosse un loro figlio di quattro anni. Ma poi i lavori di casa le costringevano a rientrare, mentre lui se ne tornava a vagare per i campi.

Regina invece aveva più tempo delle altre e talvolta si gingillava a conversare con lui. Forse perché avevano la stessa età, forse perché lei non aveva mai parlato con un uomo che non fosse stato suo fratello o suo padre. Regina non era una donna brutta, ma non aveva mai fatto nulla per sembrare bella. Le linee dolci del viso erano arrotondate qua e là da qualche chilo di troppo, ma non era grassa. Gli occhi risaltavano dal volto come l’onda della fontana sollevata dallo sciacquare dei panni, quando questa andava a rispecchiare il cielo. Ma Regina non si era mai vestita bene, non si era mai sciolta i capelli in pubblico, nemmeno quando se ne stava ore e ore a lavare alla fontana. Così gli uomini non l’avevano mai guardata.

Col passare dei giorni fu sempre di più il tempo che Mario passava a chiacchierare alla fontana con Regina. Quando lui arrivava, le altre donne a poco a poco raccoglievano i loro panni e li lasciavano da soli. Dopo quasi un mese che alla fontana le visite di Mario s’erano infittite, Regina venne presa in disparte da suo padre.
“E’ matto, non dargli troppa corda”, le disse. “Nessuno sa come possa comportarsi quel povero ragazzo”.
“Ho quarant’anni, papà. So come arrangiarmi nella vita”. A quella risposta il padre capì di colpo che c’era qualcosa di più che una pura simpatia.

Mario suonava le campane più a lungo in quei giorni. A mezzogiorno in particolare lo scampanio gli usciva dalle labbra per oltre mezz’ora, facendo impazzire i vicini di rabbia e di compassione. Un mattino di quell’estate, dopo lo scampanio delle sei, come non accadeva da anni ormai, Mario vide salire sul fienile la vecchia madre. La vide trascinarsi su per la scala a pioli, appoggiandosi ai travi, mentre cercava con gli occhi la sagoma tozza del figlio. Sapeva che lassù c’era il suo nascondiglio preferito e vi si inerpicò lenta, guardinga per non cadere. Quando la donna giunse a calpestare il fieno, Mario s’innervosì per l’improvvisata. La madre gli sorrise e lui si calmò subito.
“Ieri sera è venuto qui Luciano Cereda, con suo padre Domenico”, disse la vecchia, mentre deglutiva inutilmente la saliva. “Ai Cereda non piace che ti fermi troppo a chiacchierare con Regina”. La donna cercò di addolcire ogni espressione del viso per non ferire il cuore del figlio. Ma la circostanza le imponeva di essere ferma e decisa.
“Mario, fai il bravo”, gli disse piegando la testa da un lato. “Non disturbare più Regina, quando lava alla fontana”.
Mario abbassò lo sguardo e lasciò penzolare la testa incassata tra le spalle enormi. Poi sussurrò:
“Le voglio bene”.

La madre non lo vide nemmeno in volto. Distinse soltanto le spalle massicce che emergevano dal mucchio di fieno nel quale s’erano infossate, mentre si piegavano sempre di più, curvandosi in loro stesse. Le si spezzò il cuore e credette di morire.

“Voglio crepare,” mormorò. “Ora”. Ma nessuno la sentì.

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