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Franco Perlotto
LE CAMPANE DI SANT’ANDREA (2)
Passò qualche giorno, prima che Regina si accorgesse che Mario non passava più di lì. Poi capì tutto. Trascorse ancora una settimana, dove ogni dubbio le offuscò la mente, finché una certezza si fece strada nel cuore. Le lavandaie non avevano più osato parlarle, lasciando che il trascorrere dei giorni dissolvesse il dolore che era in lei. Ma non passò molto tempo, che la videro sorridere di nuovo. Gli occhi le brillarono all’improvviso, come il riflesso della rugiada sulle foglie dei gelsi. Non disse nulla, nemmeno col cuore, ma le altre donne avevano capito già.
In quei giorni Mario aveva continuato ad allontanarsi da casa nelle ore che correvano tra i rintocchi dell’alba e quelli di mezzogiorno. S’era spinto oltre la piazza della chiesa e più volte era salito da solo sulla cima dello scoglio di roccia, dove svettava il campanile. Gli piaceva ascoltare il suono dell’orologio e il tocco della mezz’ora tanto diverso da tutti gli altri. C’era un giovane che frequentava quei posti. Un ragazzone alto e slanciato che andava ad allenarsi sulla roccia sotto al campanile per le scalate sulle montagne. Mario l’aveva osservato bene, mentre si librava leggero volteggiando da un appiglio all’altro, avanti e indietro per la parete strapiombante. Lo aveva guardato entusiasta ed era rimasto incantato per ore ad osservarlo. Più di una volta, quando era sceso dalle rocce, il ragazzo gli aveva sorriso. Mario aveva sempre abbassato gli occhi e aveva fatto ciondolare la testa di qua e di là. Poi se n’era andato.
Il campanile non aveva ancora finito di battere i nove rintocchi del mattino che il sole già bruciava nell’aria. Gli uomini erano già sui campi per spostare i tubi verso un altro orto, in attesa di poterlo innaffiare quando, di sera, la calura scemava. Mario era con la testa penzolante da un lato, sotto la roccia del campanile a rimirare lo strapiombo stagliato contro le foschie del mattino. L’eccitazione gli fece muovere le braccia intorno al corpo, rapide come i seggiolini di una giostra delle catenelle. Poi riabbassò la testa e infilò la strada per tornare verso casa. Appena fatti tre passi, come preso da un sussulto, sollevò lo sguardo. In fondo alla via di sassi, come la luna quando di notte esce all’improvviso dal crinale del monte dietro alle fattorie, vide apparire Regina con un sorriso disteso incastonato nel volto. Fece quattro passi indietro e dalla paura andò a sbattere di schiena contro la parete di roccia. Regina avanzò verso di lui e gli sussurrò:
“Passavo di qua”.
“Non posso parlare con te”, rispose Mario con le braccia aperte e le spalle appoggiate alla roccia.
“E’ tanto che non ti vedo”, disse titubante. “Come va l’arsura nei campi?”.
“Stiamo pompando dal pozzo vecchio”, replicò Mario spaurito.
“Le mucche stanno mangiando il fieno. Come d’inverno”, bisbigliò Regina.
“Sono felice”.
“Perché?”, chiese la donna.
“Perché parlo con te”, disse Mario. Ma si vergognò di ciò che aveva detto e si girò di scatto verso la roccia.
All’improvviso, s’allontanò di un passo dalla parete e guardò la pietra intensamente con gli occhi che ne scrutavano ogni piega. Poi appoggiò tutte e due le grandi mani sulla roccia e iniziò a salire.
“Cosa fai?”, chiese Regina spaventata.
“L’ho visto fare da un ragazzo”, rispose Mario con un filo di voce.
“Non farlo”, implorò Regina. “Torna giù”.
“E’ molto bello. Lo faccio per te”.
“Scendi, ti prego”, urlò la donna. Ma di colpo il fiato le si fermò in gola e non poté più parlare. Mario ormai non la sentiva più. Tutto il corpo era concentrato a sollevare i piedi e le mani nei posti esatti dove sapeva c’erano gli appigli. L’aveva visto fare da quel ragazzo e non poteva sbagliare. La roccia era alta diciotto metri e Mario puntò dritto verso la cima, dove s’apriva una spaccatura profonda. Saliva lento muovendo qua e là il corpo possente. Aveva movimenti coordinati, in un’armonia che Regina nemmeno immaginava in lui.
L’urlo di Regina fece uscire la perpetua dalla canonica della chiesa parrocchiale. Appena la donna vide Mario arrampicarsi già a metà della parete, iniziò a urlare come una pecora abbandonata dal gregge.
“C’è il matto che scala”, gridava. “Si ammazzerà, si ammazzerà”.
Il prete uscì di corsa e con lui il sagrestano.
“Presto, presto”, belò la perpetua. “Mario Grumo è sulla roccia. Quello s’ammazza”.
Regina fu paralizzata dallo spavento e dalla vergogna. Se non fosse andata a cercarlo, Mario non l’avrebbe fatto di scalare la roccia del campanile, pensò. Piangeva, ma non riusciva più nemmeno a dirgli di tornare giù. Mario, in fondo, stava scalando proprio per lei e nessuno aveva mai fatto nulla di importante, soltanto per lei. L’uomo si arrampicava lento, barcollante nella mole immensa. Le mani si aggrappavano alla roccia con una forza che non pareva nemmeno sua. Il volto di Regina si impietrì. Le labbra le si sollevarono in una smorfia di sorriso, come in una di quelle espressioni che spesso l’angoscia impone.
Alla base della spaccatura della roccia c’era una sporgenza grande come un comodino. Le mani di Mario vi si appoggiarono sopra, ma il grande corpo ebbe uno scatto improvviso, come se volesse staccarsi dalla parete. Regina nemmeno deglutì. Poi Mario, piano piano riuscì a sedersi sopra. Quando si rese conto che stava guardando i dieci metri che aveva già scalato, si girò di nuovo verso la roccia e fece per prendere un appiglio sul bordo della spaccatura. Ma non ci riuscì. Allora tornò a guardare verso valle e preso da sgomento cercò di accovacciarsi meglio che poté sul piccolo ripiano, mentre le gambe gli caddero a penzoloni.
“Fermo, non muoverti”, gli ordinò il prete. In quell’istante comparve il sacrestano con la scala. L’appoggiò alla roccia, ma non raggiungeva nemmeno la metà della parete che Mario aveva scalato. Pochi istanti dopo arrivarono i carabinieri. Era stato il parroco a farli chiamare. Dalla loro macchina scese il ragazzo che scalava, con uno zaino di corde e moschettoni.
“Vengo a prenderti”, gridò il ragazzo. “Non preoccuparti”.
Mario era bloccato sul terrazzino e non emetteva un solo respiro. Aveva sgranato occhi grandi che nemmeno Regina aveva mai immaginato. La donna era muta e immobile nel vestito da passeggio che s’era messa per l’occasione. Lo scalatore scomparve tra le acacie del bosco per raggirare la roccia e calare una corda dall’alto. In quell’istante arrivò la madre di Mario, accompagnata dai fratelli. Guardò la roccia e la voce le si bloccò in un soffio lieve.
“Mario”, disse.
Appena la vecchia donna vide Regina, le andò vicino e l’abbracciò con tutte le forze che le erano rimaste. Poi entrambe assunsero lo sguardo di pietra della paura. Nella stradina era arrivata anche un’ambulanza e gli infermieri s’erano avvicinati ai carabinieri a parlottare sottovoce.
Ad un tratto lo scalatore comparve in cima alla roccia e iniziò a scendere lungo la parete. Tutti si zittirono. In quattro salti veloci lungo la corda il ragazzo raggiunse il terrazzino dov’era Mario. Senza lasciare passare nemmeno un secondo, gli annodò la corda intorno alla vita, fece un’asola e l’agganciò con un moschettone ad un chiodo che c’era appena sopra, già piantato nella roccia.
“Ho paura”, mormorò Mario.
“Con me sei al sicuro”, lo incoraggiò il ragazzo con un fruscio della voce. Poi gli dette una leggera pacca di solidarietà sulla spalla.
Tutti erano ammutoliti, giù sotto la roccia. Il ragazzo era svelto nelle manovre e dopo aver ritirato la corda dall’alto, si mise rapido ad ancorarla sopra al terrazzino. Poi, piano piano, si vide il corpo di Mario, con le mani aggrappate alla fune che lo stringeva sotto le ascelle, scendere lento verso la base della parete. I piedi toccarono terra che il campanile iniziò a battere mezzogiorno. Mario non suonò quel giorno e se ne rimase ammutolito dritto in piedi alla base della roccia, mentre uno dei carabinieri gli slegava la corda da sotto le braccia. Nessuno parlò. Il parroco gli si avvicinò e gli mise una mano sopra alle spalle. Poi lo accompagnò per qualche passo verso la strada. Quando fu ad un metro dall’ambulanza un infermiere aprì la porta, mentre l’altro accompagnò le lunghe braccia di Mario dietro alla schiena. Dopo un istante lo fecero sedere sulla lettiga e tutti si accorsero che le mani gli erano state legate. Mario alzò gli occhi e li puntò sbarrati in cerca di quelli di Regina e di sua madre. Le due donne sentirono scorrere sulla schiena la paura che lo terrorizzava. Più ancora di quando, pochi istanti prima, era seduto a metà della parete di roccia. Una sola voce uscì dal loro fiato, come fosse un unico fruscio del vento:
“Mario”, dissero. Poi d’istinto si toccarono la mano.
L’ambulanza partì lenta lungo la strada, senza neppure accendere la sirena. Per Mario Grumo, non c’era più nessuna urgenza. Una goccia di sudore scivolò dai capelli di Regina, bagnati da quell’estate infernale, fino a scorrerle lenta dentro agli occhi. Poi si unì ad altre gocce che piano piano andarono ad infilarsi tra le labbra già salate. Sulla campagna incandescente il sole bruciava ogni cosa, ma le campane di Sant’Andrea non suonavano più.