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Negli editoriali della rivista, ma anche nell'impostazione dei tuoi progetti sulla rete, dei siti a cui hai lavorato, è sempre trapelata la voglia di trasmettere le emozioni che provi, quei sentimenti che mettemmo poi in moto le azioni. Ho sempre avuto l'impressione che questo ti abbia trasformato agli occhi di molti che ti seguivano e che ti seguono ancora adesso sui social network in una sorta di, perdonami il termine, "piccolo guru", forse proprio grazie al modo in cui esponevi queste emozioni ed idee: senza tentennamenti, con decisioni, come se una volta fatto il primo passo e presa la direzione, la via fosse oramai già tracciata. Ne hai mai avuto percezione? Ti ha mai pesato la responsabilità di essere in qualche modo ispiratore di azioni?
Il mio scopo è sempre stato trovare il modo di fare quello che volevo, di essere libero. Arrampicare, sciare e più in generale stare all’aria aperta e vivere da atleta allenandomi e che lavorando per obiettivi, mi ha sempre affascinato. Nel mondo in cui viviamo e soprattutto nel nostro contesto – passami il termine - di sport minore e un po’ sfigato, è fondamentale connettere la propria gioia di praticante con le altre capacità e con le altre risorse intellettuali di cui disponiamo. Altrimenti il professionista del tuo sport, se proprio sei molto ma molto bravo, lo fai al massimo per qualche anno in tutto. Poi, quando le responsabilità aumentano e quando il livello medio dei nuovi praticanti del tuo sport cresce, devi passare a qualcos’altro e per i più degli atleti si tratta di retrocedere alla normalità di una vita fatta di lavoro, di famiglia, di limiti. Spesso parcheggiarsi infelicemente in qualche luogo della tua vita. Io ho pensato dall’inizio – proprio da subito – che quello che cercavo io non era un metodo per rimandare le responsabilità della vita adulta, ma al contrario una connessione indissolubile con il mio mondo, una estensione infinita della mia condizione di persona libera, felice ed in armonia con il proprio contesto sociale. Quindi ho cercato da subito di mettere in connessione tutte le mie capacità, chiamiamoli talenti, grandi o piccoli che fossero, e farne qualcosa di solido su cui costruire il mio progetto di vita e la mia carriera professionale e sportiva. In generale la cosa mi ha consentito di sviluppare un sacco di capacità, di esplorare molti ambiti di cui all’inizio ignoravo perfino l’esistenza e la scrittura ad esempio è uno di quelli. Condividere l’esperienza è stato un metodo a volte utile per rinfrancare o per fare funzionare i miei progetti, a volte necessario per finanziarli. Però non ho mai deliberatamente esposto o condiviso le mie esperienze per suscitare l’ammirazione o per sostenere la mia autostima personale. Ci sono un sacco di cose della mia vita, un sacco di performances sportive, un sacco di avventure che sono solo per me. La gente non le conosce, alcuni magari se le immaginano o le hanno sentite raccontare da altri. In tantissimi mi scrivono, per dire che in qualche modo li ho ispirati o che gli ho reso delle cose della vita più comprensibili e questo per me è davvero straordinario, non riesco nemmeno a capire come. Io in fondo dico solo quello che penso o che sento, quando uno ti scrive una email dicendo che si è licenziato dalla banca perché vuole fare il giro del mondo e vivere come uno ski-bum, il peso della responsabilità in qualche modo la senti. A volte mi immagino di essere un genitore o il fidanzato di chi mi scrive e veramente mi vengono i brividi. Cerco di non pensarci.
Quali sono stati invece i tuoi personali ispiratori, quelli che ti hanno in qualche modi indicato la strada o che ti hanno fatto vedere un modo differente di fare le cose?
Mio padre, prima di tutti. Vito Amigoni, nell’arrampicata. Nel mondo della neve e della montagna JM Boivin e Bruno Gouvì. Perché venti anni prima degli altri ci anno mostrato la via, che non è nella specializzazione estrema ma è nella estrema polivalenza. E poi Beppe Gualini, pilota motociclistico e leggenda delle Parigi-Dakar. Mi ha insegnato tutto, mi ha voluto bene come un padre, mi ha accompagnato come un fratello. Mi ha fatto capire cosa significa essere professionali in questo lavoro. Mi ha insegnato la puntualità, il rispetto, la resistenza a qualsiasi tipo di fatica, la gioia di scoprire e di riconoscere un mondo dietro a ogni angolo, dentro a ogni cosa, oggetto, persona. Mi ha insegnato la compassione e il coraggio. Mi ha insegnato a dubitare e mi ha insegnato a decidere. Senza incontrarlo la mia senz’altro sarebbe stata una vita diversa. Molto più vuota.
Qual'è stato il momento emotivamente più coinvolgente nella tua vita di scivolatore/arrampicatore/esploratore dell'avventura?
Ancora una volta, e magari sarà una delusione, non ti dirò di un momento sulla neve o su una grande montagna. Ti parlerò di una sensazione. Nel 1991 inaspettatamente mi sono ritrovato a vincere le selezioni internazionali per il Camel Trophy e poi a partecipare come concorrente rappresentando l’Italia. Quell’esperienza – in pochi lo sanno, ma si trattava in realtà di un evento che era una spedizione composta da uomini d’avventura e da giornalisti insieme nello stesso equipaggio, sulla stessa auto, in team – mi ha fatto capire che facendo appello a tutte le mie capacità, non solo quelle sportive, avrei potuto viverci con l’outdoor, con l’avventura e con l’alpinismo. Tornato a casa l’esperienza Camel Trophy avrebbe potuto concludersi così come era iniziata, avevo guadagnato un po’ di celebrità nel contesto della guida fuoristrada ma io di quella non sapevo che farmene. Io volevo fare l’alpinista e lo snowboarder estremo – così si chiamava allora lo snowboard sul ripido. Non riuscivo a immaginare un modo per gestire e capitalizzare quell’esperienza e quella inaspettata visibilità trasferendola nel mio mondo. Avevo bisogno di tempo per pensare a qualcosa di utile che non facesse leva unicamente sulla volatile e un po’ sfrontata celebrità del momento. Un paio di settimane dopo il rientro dalla gara, una mattina, mi chiamò la società inglese che organizzava il Camel Trophy e mi proposero di lavorare per loro andando a provare e a mappare i percorsi e a realizzare i road book per gli eventi degli anni successivi. La telefonata durò qualche minuto, io ero in piedi in mutande nell’anticamera di casa, allora i cellulari non esistevano. Due minuti dopo mi mandarono un fax con una proposta di contratto e mi offrivano per due mesi di lavoro in Borneo cinque volte quello che io potevo guadagnare in un anno di lavoro come insegnante di educazione fisica. Non avevo ancora fatto in tempo a vestirmi, ero sveglio da una decina di minuti ma io quel giorno lì, in quel momento, avevo capito che la mia vita sarebbe cambiata e che sarebbe stata esattamente come la volevo. E’ stato come essere cosciente di essere a un bivio della tua vita. Allora ho lasciato la scuola e tutti i corsi in palestra. Le discese ripide che ho fatto i tre anni successivi sono state interamente finanziate dal mio lavoro per una multinazionale del tabacco, la cosa davvero strepitosa era che non avevo nemmeno bisogno di raccontarle ai giornali. Erano e saranno per sempre soltanto per me.