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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Maurizio Oviglia


VIAGGIO A IXTLAN

In ogni caso nel tuo prossimo incontro, se per te ci sarà una seconda volta, dovrai lottare con l’alleato e domarlo. Se sopravvivi alla scossa, e ne sono sicuro perchè sei forte e vivi come un guerriero, ti ritroverai vivo in un paese sconosciuto. Allora, come è naturale per tutti noi, la prima cosa che vorrai fare sarà prendere la via del ritorno a Los Angeles, ma non vi sarà via del ritorno. Quello che hai lasciato là è perduto per sempre. Allora naturalmente sarai uno stregone, ma non avrà importanza; in un momento come quello l’importante per tutti noi è il fatto che tutto ciò che amiamo, odiamo o desideriamo è rimasto alle nostre spalle. Tuttavia i sentimenti di un uomo non muoiono nè cambiano, e lo stregone prende la via del ritorno sapendo che non arriverà mai, sapendo che nessun potere sulla terra, nemmeno la sua morte, lo porterà al posto, alle cose che amava...


(Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan)



Di recente anche il grande alpinista altoatesino Reinhold Messner, commentando il giorno in cui perse il fratello sul Nanga Parbat, ha pronunciato la fatidica frase: “Fino ad allora mi ero sentito invulnerabile", riferendosi alle pazzie che faceva quando aveva 20 anni. Sono parole ricorrenti tra gli alpinisti, soprattutto nei solitari, parole che sembrerebbero spiegare la motivazione dell’alpinismo. Dunque solamente un atto d’incoscienza adolescenziale? In realtà le cose sono assai più complesse e da sempre rappresentano uno dei misteri più affascinanti della psiche dell’uomo, non solo dell’alpinista che scala le montagne dalla via più difficile e pericolosa. Cosa ci spinge a compiere imprese così rischiose ed avvicinarci deliberatamente alla morte, sino a poterla toccare con un dito?


Verso la metà del 1984 avevo poco più di 20 anni e attraversavo un periodo travagliato della mia vita. Incapace di instaurare un soddisfacente rapporto con gli amici e con la mia famiglia, avevo avuto una relazione con una ragazza che si era spenta sul nascere, senza che ne avessi capito bene le ragioni. Il lavoro che facevo non mi piaceva e meditavo di farla finita, lasciar perdere tutto e partire militare. Ero insomma in una profonda crisi esistenziale e mi ero rifugiato in me stesso, vivendo in un mondo tutto mio, parallelo a quello reale. Di riflesso, forse per le letture di Carlos Castaneda, ero sempre più attratto da esperienze radicali che potessero in qualche modo mettermi brutalmente davanti a me stesso. Ma le droghe, a cui approdarono molti miei coetanei, non mi interessavano affatto, forse perchè la mia droga era l’alpinismo...


Cominciai così ad andare in montagna da solo. Mi era sempre piaciuto stare in solitudine e, fin dall'età di 15 anni, avevo fatto delle escursioni dove avevo passato l’intera giornata a vagare per le montagne. Lassù mi sentivo bene, non avevo bisogno di nessuna compagnia. Il passo successivo fu arrampicare in solitaria, nel modo più radicale possibile, ovvero senza corda.


In quella pazza stagione feci delle salite molto rischiose dove mi autoassicuravo solo in qualche sporadico punto, ma il più delle volte arrampicavo senza rete. Alle 4 del mattino ero partito da Torino e avevo concatenato le vie del Becco della Tribolazione, prendendomi pure una nevicata a metà della Via Malvassora. Ero uscito arrampicando con le moffole, sulla parete oramai incrostata di neve. Ai piedi avevo solo le scarpette completamente bagnate, addosso un maglione e un k-way . Dopo il Becco di Valsoera per la via di Guglielmo, dove in un tratto artificiale avevo tranquillamente tirato in A0 i chiodi senza assicurarmi, avevo addirittura aperto una via alla Rocca Castello: era il giorno del mio ventunesimo compleanno.


Nel gruppo del Monte Bianco salii la cresta sud alle Aiguille Noire di Peuterey in sole 4 ore e mezza, ma non pensavo assolutamente di fare qualcosa di speciale. Ritenevo quelle imprese una faccenda del tutto personale, quindi non comunicavo a nessuno i miei progetti, nemmeno una volta realizzati. Tanto meno informavo la stampa specializzata delle vie nuove, in alcuni casi lo feci solo diversi anni dopo...


Tuttavia l’esperienza più forte la vissi pochi giorni prima di partire militare, nel cuore del Gran Paradiso, nel Vallone di Noaschetta. Stavo raggiungendo il capolinea di quell’inebriante stagione, da lì a poco sarei partito, e decisi così di concedermi un ultimo colpo di coda, passando tre giorni da solo in una delle valli più sperdute del Gran Paradiso.


Ero salito lungo il sentiero con sulle spalle una piccola tendina da campeggio e pochi viveri, non più di 7 chili in tutto. Quanto all’attrezzatura, avevo solo due o tre moschettoni, due chiodi e una corda da 20 m.


Dal fondovalle camminai più di 4 ore lasciandomi alle spalle i pini, sino a raggiungere, sul limite dei ghiacciai, una distesa di prati verdi e torrenti intrecciati come rami. Su tutto incombeva una cresta di granito rosso denominata Cresta dei Prosces, che era il mio obiettivo. Su questa parete erano state aperte diverse vie, ma non erano molto frequentate a causa del loro lungo avvicinamento. Noaschetta era considerato uno dei posti più sperduti delle Alpi.


Piantai la mia tendina sull’erba soffice del piano ed attesi la notte, che scese lentamente, nera e invasa da sogni leggeri, intervallati solo dal rumore del torrente.


L’alba mi colse all’attacco delle prime rocce della parete, alle prese con la"Via della Torre Nera", che secondo Gian Carlo Grassi, che l’aveva tracciata, era la più bella della parete. Dopo solo due ore di magnifica arrampicata, su un granito rugoso, ero in cima. Mi rimaneva ancora l’intera giornata per leggere e pensare accanto alla mia tenda.


Dopo un pomeriggio di letture e meditazione, il giorno successivo ritornai all’attacco della parete ancora più ambizioso ed iniziai a salire su una placca vergine. Ma dopo i primi dieci metri divenne troppo difficile e non me la sentii più di procedere slegato. Piantai un chiodo dietro una lama e sciolsi la corda che avevo sulle spalle, la passai nell’anello del chiodo e ne legai i capi all’imbragatura. Arrampicai il tratto seguente, che era un buon VI grado, con il cuore in gola. Avevo perso la calma, ero alla deriva su una placca, mirando ad appigli che non sapevo se sarei stato capace di tenere. Cercai allora di scacciare i pensieri e la ragione dalla mia mente, consapevole che stavo rischiando oltre il dovuto. Ero veramente partito per un viaggio senza ritorno, le parole di Don Juan, sottolineate a matita la sera prima, mi rimbombavano continuamente nella testa.


Su un minuscolo gradino, oramai a 5 metri dal chiodo, senza più possibilità di scendere, cercai ancora di raccogliere i pensieri e scacciarli definitivamente dalla mia mente. Mi imposi la calma e riuscii finalmente a superare i passaggi che mi separavano da una zona più facile. Sciolsi un capo della corda e la recuperai, poi proseguii nuovamente slegato.


Ma verso la fine della parete la paura ritornò. Mi ero infilato in uno stretto camino che si faceva via via più difficile. Vedevo su, dieci metri sopra di me, il cielo della cresta, e quel cielo rappresentava in quel momento il ritorno alla vita. Potevo cadere in qualsiasi momento: la morte, ne ero certo, sarebbe stata indolore. Un’eventualità calcolata ed accettata con cui avevo deciso di dividere la posta, era la mia compagna di cordata e mi scalava a fianco... Ciò nonostante, mi sentivo invulnerabile, come se non fossi io a vivere quella situazione...


Intossicato dall’adrenalina, scesi barcollando verso il colle e la piccola tendina arancione, la stessa in cui oggi giocano i miei figli sulla spiaggia.

La smontai e mi avviai verso valle. Non incontrai anima viva, aleggiavano sul piano i fantasmi usciti dalle pagine del libro di Castaneda. Avevo vissuto quello che volevo, ma non mi sentivo sostanzialmente cambiato.


A settembre lasciai il continente verso la Sardegna, dove ero stato assegnato per il servizio di leva. Avevo passato due mesi d’inferno nelle caserme del sud Italia, dove avevo sopportato in silenzio le continue umiliazioni dei commilitoni più anziani. Guardavo i miei compagni piangere e urlare per essere stati assegnati così lontano dalla ragazza o dalla famiglia. A me non importava nulla, ero sempre più staccato dal mondo.


Alla prima libera uscita della mia destinazione definitiva, la Sardegna, camminai verso la periferia di Cagliari, dove potevo vedere alcune rocce bianche, le uniche che mi ricordassero vagamente le montagne. Non riuscii a resistere all’impulso di scalarle. Dalla cima dominavo il quartiere popolare di Sant’Elia, dove fortunatamente nessuno aveva fatto caso alla mia arrampicata. Poi salii slegato sulle scogliere di Calamosca, che precipitavano in mare per più di 70 metri. La roccia non era solida, ed oggi so che avrei potuto precipitare in qualsiasi istante per la rottura di un appiglio. Forse lo sapevo anche allora, o forse no...


Finchè un giorno, su una via denominata “Anfetamine”, accadde l’inevitabile. A 7 metri da terra, in una traversata, un piede scivolò e il mio corpo sbandierò verso il vuoto. Istintivamente la mano sinistra si conficcò nell’unico appiglio che sosteneva il mio peso e rimasi appeso ad un braccio. In preda al panico, respiravo affannosamente e tremavo. Incapace di scendere, realizzai che l’unica via che mi rimaneva era verso l’alto, ma ero quasi paralizzato dalla paura. Qualcosa si era spezzato, ora mi rendevo conto razionalmente che quel giorno poteva realmente essere l’ultimo della mia vita e non mi sentivo più invulnerabile. Quei 5 metri finali furono uno degli incubi peggiori della mia esistenza, ma mi diedero da forza di farla finita e cambiarono per sempre direzione alla mia vita. Sulla cima, un altipiano che profumava di cisto e rosmarino al caldo sole d’autunno, restai a guardare l’orizzonte sino a sentire il respiro fluire normalmente. Ci volle più di un’ora. Il mare era uno specchio, un peschereccio lasciava lentamente il porto verso il largo, io rientravo invece verso la terra ferma, finalmente desideroso di vedere cosa mi avrebbe riservato la vita...

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