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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Luigi Cianciusi


L’INCONTRO

Sono tornato in montagna con Franco e con  Nora, ed  assieme con noi c'è anche Vito. Siamo di nuovo al Gran Sasso, dove per la prima volta l'avevamo incontrato, ed è come dire che il cerchio s'è chiuso, che torniamo all'origine.

La parete ci ha accolti amichevolmente, e non era andata così l'altra volta! Oggi invece,  riscaldata dal sole d'autunno, s'è mostrata pacifica, tollerante,  e ancora adesso che siamo a pranzo ad Assergi continuiamo ad avere negli occhi le cuspidi gialle ed il bivacco Bafile, là in fondo, piccolissima macchia nell'enormità del contesto.

Franco siede di spalle al camino. Tra lui e Nora c’è Silvia, la loro bambina, e di fronte io siedo con Vito,  i l < Vecchiaccio>.

C'era da aspettarselo! Vito si mette a descrivere l'ultima salita che ha effettuato a Sperlonga e la descrive con precisione, appiglio per appiglio, fessura per fessura, chiodo per chiodo. Poi per un attimo che, conoscendo il soggetto, potrebbe durare anche ore, Vito divaga ed inizia a parlare di Piero, altro suo inseparabile amico. Io sono lì ad aspettare che venga il momento per interromperlo.

Bisogna fermarlo! Se ne accorge anche Franco, che prende l'iniziativa ed esclama: "Bella! Bella Bella! Bellissima! "

- "Ma che?", dico io.

- "La montagna! "

Stavo bevendo e per poco non mi strozzo dal ridere.

-o-

Appunto in Gran Sasso, sul sentiero attrezzato che ha origine dal "sassone", io, Franco e Nora ci stavamo affannando.

Gli zaini pesanti, con corde, chiodi e martelli, l'esposizione, i traversi, la fatica che si faceva sentire, tutto si traduceva nell'incertezza dei movimenti e alimentava l'apprensione di ognuno. Non avevamo esperienza: io stesso, quanto a prove alpinistiche, vantavo soltanto una salita della "Valeria", Franco proprio non aveva familiarità con l'ambiente ed entrambi nutrivamo dei dubbi circa la tenuta di Nora, che ci frequentava da poco.

-"Ehi! Gente de pianura!"

Dall'alto, piazzato avanti al bivacco Bafile, un vecchietto ci stava sfottendo mentre risalivamo la rampa. Indossava una giacca mimetica da militare e sembrava malconcio.

-"Arzete, ca qua se cammina", gridò a Nora quando lei, al termine della <ferrata>, ancora non era riuscita a rimettersi in piedi.

- "Ma c'è un guardiano ai bivacchi?", chiese Nora, sottovoce per non farsi sentire dal vecchio. E Franco rispose "Con quella giacca sarà un Forestale".

Io invece compresi, perché del Vecchiaccio avevo sentito parlare, e mi emozionai: eravamo al cospetto di Vito Plumari!

-o-

Sessantotto anni, con la testa e le mani che si muovevano incessantemente, esile e sporco, Vito Plumari era famoso: lui era "il Vecchiaccio" che continuava ad arrampicare facendola in barba all'età ed al morbo di Parkinson.

Gli alpinisti romani, quelli delle ultime due generazioni, avevano ricevuto l'input da lui, che con la sua "celestina" (Opel Kadett) e poi con la "Azzurrina" (Opel Manta) li accompagnava al "Morra", la palestra di roccia.

D'estate, poi, Vito prendeva la moto, e quando nei pressi del campo sportivo di San Polo dei Cavalieri c'era una grossa Suzuki, quella stava lì a ribadire che Vito era al "Morra" e che chiunque fosse venuto da solo avrebbe trovato "il Vecchiaccio" pronto a fargli da "primo" sul facile e da buon "secondo" sulle vie più difficili.

Tutti sapevano che il futuro di Vito, più che dalla montagna, sarebbe dipeso dal "cavalletto" della sua moto, dato che spesso lui dimenticava di alzarlo quando partiva. E difatti s'era plurifratturato le gambe.

-"Piacere! Io sono il vecchiaccio", disse Vito stendendo la mano con una punta di orgoglio, e mentre Nora si ritraeva io m'ero chiaramente esaltato.

E Vito, che viaggiava su un altro binario, già stava parlando di Pierluigi:

-"Doveva venire anche Piero, con il fratello della <Dieuska>".

-"Con chi?"

-"Con Alvaro!"

Come se tutto dovesse esser chiaro per tutti!

Dieuska, nell'improbabile lingua appresa da Vito durante la campagna di Russia, significava "ragazza", cioè la ragazza di Piero, sorella di Alvaro.

Adesso era evidente che il vecchio si stava facendo "reclame", perché Piero ed Alvaro (ed anche questo io lo sapevo) erano stati fra quelli che, da adolescenti, avevano iniziato a seguirlo al "Morra" e che poi, però, avevano saputo inventare il VII grado in Gran Sasso.

"Magari non vengono", disse Vito, "ma tanto ho il mio spezzone di corda! Che fate domani?"

- "Perché, tu che faresti?"

- "Se vengono ripetiamo la via di Mimì, la <Alessandri-Leone>, ma se non vengono io la gente di pianura posso portarla, per esempio, sulla Sucai".

- "L'hai già fatta?" gli chiesi.

- "No, ma si interseca con la via di Mimi. Se vuoi tiro io".

- "No, caso mai tiro io".

Piero ed Alvaro non arrivarono e la notte trascorse nel modo peggiore: il bivacco, già angusto, era saturo delle emanazioni di Vito, Franco russava con toni e frequenza incredibili, io andai fuori due volte con l'intestino in subbuglio. Poi però la stanchezza prevalse.

-o-

Al mattino, verso le sei, ci svegliammo quasi contemporaneamente. Dall'Adriatico, o forse dal fondo del vallone dell'Inferno, venivano sporadiche folate di vento. Un vento non forte, ma elettrico. Sembrava che il vento, senza muovere nulla, si facesse comunque sentire, e difatti in silenzio si "caricarono" persino i tiranti del bivacco e prima ancora che il sole emergesse dal mare le lamiere delle pareti vibrarono impercettibilmente: si passava, in montagna, dalla notte al giorno e tutto l'ambiente si stava scuotendo.

Fummo in piedi in un attimo, elettrici come l'ambiente. L'unico che rimase ancora un po' in branda, tranquillo, fu Vito: lui questi fenomeni li conosceva benissimo.

Poi con calma si alzò, uscì ad orinare, tornò dentro e prese le pedule. Una la calzò subito e nell'altra sistemò una pallottola di carta. Fece vedere a tutti, con naturalezza, che aveva subito l'amputazione di un alluce, congelatosi in Russia, e spiegò che la carta serviva per riempire lo spazio non occupato dal dito. Era una questione di aderenza in arrampicata.

Prese lo zaino, ne estrasse una busta di plastica e da questa tirò fuori i resti squagliati di un grappolo d'uva. Dopo che ebbe mangiato indossò l'imbragatura, si gettò lo zaino sulla schiena e fu pronto per la salita.

-o-

Con le sole due corde di cui disponevo e con lo spezzone di Vito, non più lungo di quindici metri, ci legammo in una sola cordata da quattro. Né Franco né Nora avrebbero potuto, infatti,  "andare da primi" e nessuno dei due si fidava del vecchio. Il vento, d'altronde, aveva spazzato le nuvole e la giornata era lunga. Non c'era motivo di preoccuparsi dei tempi!.

Ridiscesa la rampa che dal bivacco conduce alla "comba", tutti salimmo per le roccette laterali al "canalone centrale" e ci trovammo, già legati, sul primo tiro di traversata. Esattamente com'era scritto nella guida di Antonioli ed Ardito, che tenevo sotto la giacca!

Una qualche incertezza veniva sì dall'altimetro, che indicava una quota ben superiore a quella reale, ma la parete era illuminata ed il ciclo era limpido, e così iniziammo a scalare.

Secondo la guida si trattava ora di traversare per sessanta metri a sinistra su cengia di II grado fino a una nicchia, ed in effetti incontrammo una nicchia e la superammo, per affrontare poi un diedro che tornava un po' a destra. 

A questo punto la relazione suggeriva di "spostarsi a sinistra e salire <senza via obbligata> per placche, puntando ad un altro diedrino evidente": fu così che noi, non più obbligati a seguire una via, prendemmo per evidente qualunque diedrino, anche quello di "quinto" che, tardi, Vito riconobbe come parte della Alesandri-Leone. Dopo venti metri tornai giù con una "doppia" azzardata e tentai di traversare a sinistra, ma la Sucai era ormai irrimediabilmente perduta.

Intanto, il vento s'era definitivamente calmato, ed erano comparsi dei nembi isolati.

Traversammo ancora a sinistra, salendo in diagonale per un paio di tiri di corda ed il calvario ebbe inizio: Franco venne colpito da un sasso che cadeva dall'alto, forse mosso da un'altra cordata, e la spalla fu fratturata; subito dopo la parate iniziò a trasmettere i segnali allarmanti che precedono il temporale.

Si tratta, all'inizio, di messaggi impercettibili, trascurabili, e però chi sta arrampicando li avverte con sgomento, perché sa che di lì a poco l'ambiente diventerà elettrico, che chiodi e martello fungeranno da parafulmini, che le corde si bagneranno e che tutto diventerà più difficile.

Le nubi si raccolsero intorno alla vetta, ridussero la visuale ed inumidirono la parete. Mancavano forse ancora tre tiri e Franco si poteva servire soltanto della sua mano destra. Procedeva, comunque, mentre Vito, stanchissimo, non era più in grado di badare a se stesso. Le corde erano diventate pesanti ed il maltempo continuava ad imperversare.

Ad un tratto la peluria del golf indossato da Nora si mise a vibrare e mandò due o tre scoppiettii, come quelli che si avvertono quando ci si toglie un indumento sintetico. Un fruscio crescente pervase l'intera parete e, con uno scoppio improvviso, assordante, il fulmine si abbatté pochi metri più in alto.

E venne la grandine, tanta. Si sciolse e nei diedri si trasformò in cascate potenti.

Sbigottiti, confusi, ci raccogliemmo su un terrazzino, allontanammo chiodi e martelli, e aspettammo. Si tremava dal freddo e della paura, perché in qualunque momento si poteva restar fulminati.

Nora e Franco si coprirono con una sola mantella, si rannicchiarono, si abbracciarono e, quasi inconsapevolmente, si baciarono. Si baciarono e poi, resisi conto di averlo fatto, lo fecero ancora.  Si guardarono in volto, si vergognarono, ma si baciarono. E gli altri? Ormai gli altri più non contavano. Il mondo, anche quello della roccia e dei fulmini, restava fuori da quella mantella. Perfino la spalla, pur dolorante, passava in secondo piano.

o

Non grandinava più, ma le nuvole imperversavano e la parete era ancora impraticabile. Certamente non si poteva sperare di uscire per la Sucai.

Allora Vito ebbe un colpo di genio: si ricordò di aver già percorso la vicina "via dello Spigolo" e giudicò che a quella quota le difficoltà dello "Spigolo" dovevano essere ormai superate. Dato che non ne era sicuro, non ne parlò con gli amici, ma cominciò a traversare, abbandonò la Sucai, traversò ancora un poco a sinistra e si trovò sulla cresta finale della via parallela.

Usciti!

Franco venne tirato su a forza, Vito salì con fatica, lentissimo, e Nora fu l’unica a non creare problemi.

Quando, bagnati fino alle ossa, raggiungemmo la croce che c'è sul Gran Sasso, venne il bel tempo, naturalmente!

-o-

Il cameriere ci porta un amaro ed il pranzo è finito. Allora Silvia si rivolge alla madre e le chiede se può avere un gelato. Il cameriere attende che Nora acconsenta e lei, ammiccando, dice "Ma certo. Silvia è grande: ormai ha compiuto sei anni!"

Sei anni, rifletto, e forse Silvia ancora non sa come è stata importante anche per lei la Sucai. Conosce però benissimo Vito, perché il Vecchiaccio, dai tempi di quella salita, con noi ne ha fatte altre cento, al Morra, a Gaeta, al Gran Sasso e al Circeo. Ci viene a trovare, pranza spesso con noi e, qualche volta, porta le pastarelle  per la bambina.

E' proprio Silvia che all'improvviso, finito il gelato, si accorge dell'assenza di Vito. Si preoccupa, ed anzi ha paura. Si mette a gridare: "Mamma, Vito se n'è andato!".

Guardo di fianco, dov'era il posto del vecchio, e vedo che è vuoto. La tavola neppure  è più apparecchiata. Anch'io mi spavento, e mentre cerco di scorgerlo da qualche parte mi dico che è strano, ma che avevo sempre pensato che Vito non potesse mai andarsene. Franco mi tranquillizza: "Starà arrampicando da qualche parte".


Il Vecchiaccio è morto nella primavera del 1996 in un Ospedale romano, paradossalmente a causa di una malattia infettiva. E' sepolto nel cimitero di Collelongo.

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