ALBERTO SCIAMPLICOTTI
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BRUNO TRENTIN

“E nella Capitale come viveva il suo alpinismo e l’arrampicata? Chi erano i suoi compagni di cordata?”


“A Roma frequentavo il Morra, la palestra storica degli alpinisti della zona. Conobbi così Dado Morandi, Franco Alletto e Franco Cravino e più avanti Antonio Muraro. Per anni frequentai con loro il Gran Sasso. Quasi ogni estate si partiva poi per andare ad arrampicare sulle Alpi. In particolare con Dado arrampicammo in Brenta, sulle Cinque Dita e in Lavaredo. Con lui e con Cravino aprimmo anche un paio di vie, a comando alternato, sempre sulle Dolomiiti.”


“Quindi l’alpinismo come la passione della vita, quella con la P maiuscola?”


“Non sono mai riuscito a trovare in altre attività, o in luoghi diversi dalla montagna, le sensazioni che mi riesce a trasmettere l’alpinismo. Qualcuno le prova praticando la vela. Da parte mia nelle vacanze passate mare non sono mai riuscito a trovare quel distacco mentale dal quotidiano che mi dà invece lo stare in parete. E’ un intreccio, fra la ricerca della padronanza completa del proprio corpo e la sfida dell’intelligenza nel cogliere il passaggio e il movimento giusto. Contemporaneamente occorre respingere l’istinto che non ti vorrebbe in quel luogo e in quella situazione. Per questo vedo l’arrampicata sportiva come un’esperienza incompleta: pur riconoscendole i grandi progressi tecnica che ha portato, trovo che anche quando sia condotta ai massimi livelli manchi del gusto e della sapienza dell’esplorazione: non ha dalla sua la capacità di fare fronte agli imprevisti propri di un ambiente che può essere nemico se non lo si affronta con grande modestia. Soprattutto manca completamente di un fattore che trovo imprescindibile: il rapporto con l’altro. Non è concepibile un’esperienza di roccia in montagna senza il contributo dell’amicizia vera, penso infatti che non sia possibile arrampicare più di una volta con una persona con cui non ci sia una comunione d’animo. Legarsi in cordata insieme è veramente qualcosa di più di un comune accordo per giungere a un fine. Allora, o esiste questa emozione o dopo qualche volta che si arrampica insieme si finisce per odiarsi. E’ come la vita in carcere. Se si capita bene, con una persona con cui ci sono delle affinità intellettuali o affettive, quasi non ci sono problemi. Nel caso contrario la convivenza diventa impossibille.”


“E’ strano questo paragone con la vita del carcere.”


“Sì, ma penso che abbia dei fondamenti. D’altronde in quel momento si è prigionieri di quello che si sta facendo. Una detenzione scelta liberamente, certo, ma da cui non si può fuggire se si vuole giungere ad un risultato. Questo rapporto poi crea un legame con l’altro, assolutamente fondamentale, alla cui base c’è una fiducia totale. Penso sia per questo che con Dado Morandi, Franco Cravino, Antonio Muraro e quelli con cui ho arrampicato spesso si è formata un’amicizia che continua anche al di là della montagna.”


“Adesso, dopo tanti anni di impegno con il sindacato, lei è diventato Parlamentare Europeo a  Strasburgo.”


“Sì, e la cosa ha condizionato il mio praticare l’alpinismo: prima riuscivo ad andare molto di più ad arrampicare. Ora è molto più difficile e la cosa mi pesa molto, anche perché alla mia età non posso permettermi dei lunghi periodi senza fare nulla. Amavo andare da primo di cordata, prima con i miei amici, a comando alternato, poi con mio figlio. Anche ora, che lui è diventato più bravo di me, rimane il piacere di poter condividere questa forte esperienza. Lo stesso è successo, anche se con meno continuità, con mia figlia. Sento la mancanza della dedizione fisica e mentale che richiede l’arrampicare in montagna. Può sembrare strano, ma quest’esperienza l’ho sempre trovata estremamente simile alle quelle vissute durante gli anni della guerra o a quelle delle lotte sindacali del ‘68 e del famoso autunno caldo: intensa e coinvolgente in modo assoluto.”



Aggiunta a gennaio 2013.

Con queste parole, in cui viene paragonata l’esperienza dell’alpinismo a quelle vissute durante gli anni del guerra o nelle lotte sindacali del ’68 conclusi, per motivi di spazio dovuti alla limitata lunghezza dell’articolo richiesto, l’intervista a Trentin. Eravamo in un bar del centro, vicino a casa sua. Nella registrazione su nastro le sue parole erano a tratti quasi coperte da quelle degli altri avventori: risate, tintinnio di bicchieri, voci dei turisti. Eppure, uscendo dal locale dopo averlo salutato, ricordo che non potei fare a meno di pensare a quanta coerenza c’era dietro quella barba e quegli occhi azzurri. Credo di aver pensato che fosse stato bello averlo come Comandante durante la guerra partigiana, o essersi trovato sotto il palco da cui parlava alla FIAT di Arese. Oggi non posso fare a meno di riflettere invece a quanta differenza e lontanza c’è fra quest’uomo, il suo stile di vita e la sua coerenza e quella degli attuali sindacalisti e politici italiani: abissale, come il vuoto che si apre sotto le pareti su cui Trentin amava arrampicare.

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