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Franco Perlotto
IL CAVAPIETRE
Rovistando di nascosto su uno scaffale della biblioteca Bertoliana di Vicenza, trovai alcuni vecchi fogli scritti a mano negli anni venti, raggruppati malamente in una cartellina di colore verde. Era legata insieme da due fettucce, quelle che solitamente le sarte usano per rafforzare l’orlo dei pantaloni, annodate insieme come di solito usano fare i notai per non sperdere i documenti in giro per i contenitori. Scovai quella cartellina nello scaffale dell’archivio generale, dove si tenevano in bel miscuglio i materiali non catalogabili.
Dentro c’erano molti altri fogli, ingialliti dal tempo. Pezzi di diario scritti a inchiostro, appunti, disegni. Sopra alla cartellina c’era un titolo su un’etichetta:
“Pezzi di documenti d’epoca non identificati. Anni 1920 - 1925”.
Tra questi mi colpirono cinque pagine di diario, annotate a matita su fogli a quadretti. Scritto a penna, sicuramente in tempi più recenti, in diagonale in cima alla prima pagina, c’era:
“Caro Domenico, ti invio il diario del marmista come mi richiedevi. L’ho rintracciato attraverso il proprietario di una cava della Valle del Chiampo, il quale nemmeno si ricordava di chi era”.
Stentai a decifrare quelle note di scrittura minuta, ma piano piano ci riuscii. Poi le trascrissi.
Molino di Altissimo, 15 Settembre 1922.
La temperatura comincia ad abbassarsi anche sui Lessini. Ieri Ignacio Paco è tornato in Spagna. Ci ha lasciato tutto il materiale necessario ed ora tocca a noi. Mario ed io partiamo stasera in treno per andare sulle Dolomiti. E’ la prima volta che vado lassù, chissà che freddo farà. Ci arriveremo in due giorni, ma il mio pensiero è già là. Sono montagne bellissime. Dovremo raggiungere le Tre Cime di Lavaredo, che mi dicono siano tra le più belle. Mario si è allenato su e giù dai monti Lessini per tutta l’estate. Io mi sono arrampicato ogni giorno fino alla cima delle lastronate alte della cava dove lavoro, sempre senza corda. Gli altri cavapietre mi davano del pazzo. Credo che Mario ed io siamo pronti alla nostra missione. Poco prima di raggiungere le montagne dovremo incontrare altre tre persone che saliranno con noi”.
Cortina d’Ampezzo, 18 Settembre 1922.
Dal treno, Mario ed io abbiamo visto per la prima volta le Dolomiti. Sono bellissime. Ma mentre scaricavamo le nostre casse abbiamo passato un attimo di terrore. La cassa grande, quella con la dinamite, era stata lanciata dai ferrovieri giù dal vagone e aveva iniziato a muoversi avanti e indietro in bilico sulle altre in modo pauroso. Noi non potevamo farci scoprire e ce ne siamo stati zitti zitti con l’angoscia in gola. Se prendeva un altro colpo, saltavamo tutti in aria. Ci è andata bene. Sebbene questo progetto del movimento anarchico mi sembri assurdo, vi ho aderito con entusiasmo per due motivi. A occhio, come stanno andando a rilento le cose, le pareti delle Tre Cime di Lavaredo non le abbatteremo mai. Le miniamo, come è stato deciso in Spagna, ma sono convinto che non le faremo brillare. E’ una mia sensazione netta.
Il secondo motivo è che mi affascina andare sulle montagne. Questa è una bella occasione. Mario invece è convinto dell’utilità di questa operazione dimostrativa. Mario è un anarchico vero e come lui ce n’è uno in ogni squadra che sta operando contemporaneamente su sette cime delle Alpi. Mario è perfino andato ad ascoltare Malatesta, due anni fa. Gli spagnoli si fidano di lui. Buttare giù sette montagne sembra essere l’operazione più importante del movimento anarchico in Europa centrale”.
Misurina, 23 Settembre 1922.
Ci hanno raggiunto i tre che aspettavamo. Sono veneti anche loro. Forse vicentini, forse padovani. Uno di loro lo chiamano Menego. Degli altri due non ho ancora imparato il nome. Sembrano tipi in gamba. Sono anarchici come me, non come Mario. Convinti, ma non fino in fondo. Ci sono voluti otto muli per trasportare fino a quassù tutto il materiale. Ora con gli altri compagni continueremo la salita. Qui c’è un meraviglioso lago e le montagne vi si specchiano dentro. Le Tre Cime di Lavaredo da qui sembrano dei cucuzzoli qualsiasi. Giù in cava scaliamo cose peggiori. Quel giorno che è morto Tonino Nieddu, “el sardegnolo”, come lo chiamavamo noi per prenderlo in giro, mi sono arrampicato sul lastrone verticale che gli era caduto addosso per vedere se potevo ancora aiutarlo. Qui sulle Dolomiti lo chiamerebbero quinto grado, ma era molto più difficile di qualsiasi scalata su queste montagne. Ecco, l’unico motivo che mi rende davvero felice di fare saltare le Tre Cime di Lavaredo, è per Tonino. Quei maiali dei padroni che hanno fretta di fare saltare le mine nelle cave per farci lavorare di più, non si meritano di venire quassù a godersi queste bellezze. Noi cavapietre non potremo mai goderle queste montagne e nemmeno i nostri figli”.
Forcella del Paterno, 25 Settembre 1922.
Fa un freddo cane, ma tutto il materiale è già sotto alle pareti. Da qui le montagne sono davvero impressionanti. Domattina iniziamo il lavoro. Ne avremo per un mese. Menego se ne tornerà a Cortina, perché dovrebbe arrivare dell’altro materiale. Abitiamo in una galleria di guerra e stiamo molto bene. Pochi anni fa qui c’erano gli austriaci. Domani cominceremo a bucare. Da sinistra verso destra. Poi saliremo al passo tra le Cima Grande e la Cima Ovest continuando a bucare. Dal passo in giù andranno avanti gli altri due. Mario ed io, che di dinamite ce ne intendiamo, inizieremo invece a riempire i buchi.
Oggi ho scalato una parete di roccia fino ad una terrazza a cento metri da terra. Volevo vedere se si poteva minare anche lassù. La pietra era gelida, ma le mani tenevano bene sugli appigli. Però arrampicare qui mi sembra più facile che giù in cava”.
Forcella del Paterno, 7 Ottobre 1922.
Qui nella grotta si sta bene, ma le candele stanno scarseggiando. Siamo tutti stanchissimi, perché il lavoro sta andando avanti veloce. Non ho voglia di scrivere. Ieri è arrivato Menego con i muli e altra dinamite. Ma si è dimenticato delle candele. Dice che è arrivato uno spagnolo a Cortina. Dice che gli anarchici sono contenti del nostro lavoro. Dice che saremo ricordati nella storia. Io sono solo stanchissimo. Viva l’anarchia e buona notte”.
Forcella del Paterno, 15 Ottobre 1922.
Siamo in dirittura d’arrivo. Il lavoro è quasi completato. Sono così stanco che spero di fare brillare presto le mine. Voglio vedere questa montagna che cade giù. Con tutta la dinamite che abbiamo infilato nella parete di settentrione, dovrebbe rimanere in piedi soltanto una guglia sottile e forse neanche quella. Stamattina Mario mi ha mandato giù di corsa per la Val Fiscalina. A turno l’abbiamo fatto tutti. Quando salta la montagna avremo sì e no un paio d’ore per raggiungere Dobbiaco senza che ci prendano. Ma siamo tutti bene allenati. Menego ci farà trovare le biciclette in fondo alla valle e torneremo per la Val Pusteria. Sono così stufo di stare quassù in questa grotta che non vedo l’ora di andarmene.
Tre giorni fa è arrivato lo spagnolo e ci ha portato un prosciutto crudo. “Jamon serrano” lo chiama lui e ce lo siamo già mangiato mezzo. Ci ha elogiati. L’anarchia è l’unica forma di vita che si possa concepire, ci ha detto”.