Alberto Sciamplicotti
GIU’ DALLA MONTAGNA (2)
-Ma chi me l’ha fatto fare- pensai. Un cane lontano cominciò a abbaiare nella notte ancora scura e un’upupa spaventata dalle nostre voci si alzò in volo dal tetto di una cappella vicina.
-A Fabrì, a tutte quelle storie orribili di fantasmi e mostri non ci credo- dissi -però non si sa mai…- Con la torcia illuminai intorno e trovai vicino a un tumulo recente dei sassi e ne misi due grandi in tasca e ne tenni un terzo in mano. Fabrizio spense la sua torcia e la posò nella tasca posteriore dei pantaloni e prese anche lui due grossi sassi, uno per mano.
Nella luce arancione dei lumini camminavamo vicini e la ghiaia dei vialetti scricchiolava sotto i nostri passi e i nomi in rilievo sulle lapidi danzavano nel fascio di luce della mia lampadina tascabile. Fabrizio muoveva i sassi nelle mani mentre camminava e li bilanciava cercandone il peso e l’impugnatura migliore per un eventuale lancio. -Ma dov’è la tomba di zì Giotto?- chiese.
Con la torcia illuminai il viale fino a una cappella di marmo rosa. -Dovrebbe essere lì dietro- indicai -Strano che non si veda nessuno.-
-Pssst! Pssst! Hei!- sussurrò Fabrizio -Dove siete? Psst! Psst! Giuliano…Fausto, Erasmo…Uscite fuori- continuò sottovoce.
Un cigolio metallico e il cancello della cappella rosa si iniziò ad aprire. Ci bloccammo con il fiato sospeso e i muscoli in tensione. I piedi erano incollati a terra sull’ultimo passo: un lamento sommesso ci giunse dall’interno del piccolo edificio e sentii i capelli rizzarsi sulla nuca mentre si trasformava in un urlo bestiale e una figura dal viso pallido, avvolta in un sudario bianco, usciva tenendo le braccia avanti a se come per ghermirci.
Con la coda dell’occhio vidi Fabrizio, spaventato, stringere i denti e portare sopra la spalla la mano destra e tirare un sasso. La pietra che teneva nella sinistra cambiò di mano e seguì la prima con millimetrica precisione.
-AAAH!- Urlò di dolore Erasmo con la faccia pallida per la polvere di cenere -Fermi, fermi!- Facendo finta di non averlo riconosciuto dalla voce tirai anch’io le mie munizioni, colpendolo a una coscia e su un braccio che muoveva veloce per proteggere il corpo dai proiettili di pietra.
Raccogliemmo degli altri sassi per armarci di nuovo e ci avvicinammo al falso fantasma mentre dalla cappella rosa ora venivano risate sguaiate e trattenute a stento. Erasmo seduto in terra si lamentava e si massaggiava la coscia e il torace dove era stato colpito.
-La prossima volta lo fate voi il fantasma- mugugnò verso l’edificio funerario cercando di trattenere le lacrime.
-Smettila di frignare- disse Giuliano ridendo e uscendo dalla cappella -che non ti ha obbligato nessuno-
-Anzi- aggiunse Fausto seguendolo e pulendosi la maglietta dalla cenere che aveva usato per truccare Erasmo -sei stato proprio tu che ti sei offerto volontario-
Giuliano si avvicinò a noi e mosse le dita intorno al viso che aveva atteggiato in una smorfia paurosa e ringhiò -Benvenuti nel cimitero dei mostri e dei fantasmi. Benvenuti nella notte della paura!- Rise e la sigaretta che aveva nella mano destra, mossa nell’aria, tracciava scie di brace.
-L’ultimo che arriva al Monumento ai Caduti è una femmina!- gridò e corse via.
Ci dividemmo e correvamo fra i viali e saltavamo sopra i tumuli e le tombe per non calpestarle e ci nascondevamo dietro una lapide e aspettavamo che passasse qualcuno per sbucare fuori saltando e urlando. Era veramente la notte dei mostri e dei fantasmi e della paura, ma soprattutto la nostra notte.
Il Monumento ai Caduti di guerra si trovava nella parte alta del cimitero e dal suo basamento di pietra grigia si dominavano tutte le altre tombe.
Ritardati dagli agguati e dagli inseguimenti in cui ci eravamo impegnati vi giungemmo praticamente tutti nello stesso momento. La discussione per chi fosse arrivato ultimo e meritasse l’appellativo di femmina ci impegnò per qualche minuto e si concluse solamente quando Fausto, dopo essersi diretto verso la parte posteriore del mausoleo, ritornò con un sacchetto in mano da cui estrarre una bottiglia di vermouth.
Eravamo seduti sul bordo del basamento e Fausto, Erasmo e Giuliano bevevano il Riccadonna scherzando e a grandi sorsi e quando ci passarono la bottiglia pensai ai miei genitori che mi consentivano di bere solamente un dito di vino rosso durante il pranzo della domenica; anche Fabrizio tentennò un attimo e il suo primo sorso fu breve. Quando la bottiglia tornò a noi ci facemmo coraggio e il liquore ci riempì la bocca, ma i sorsi furono così esagerati che traboccarono le labbra e scesero a bagnare il mento.
-Vorrei fare un brindisi- disse Giuliano prendendo la bottiglia e alzandola -A zì Giotto e alla sua cirrosi- declamò e diede un lungo sorso.
-A zì Giotto che ci regalava sempre le sigarette- aggiunse Fausto e bevve anche lui. Il boccione da due litri finì presto e l’alcool dopo averci resi allegri ci regalava ora lo stordimento.
Eravamo sdraiati e guardavamo le stelle.
-Quante sono- disse Fabrizio -Sembrano di più delle altre sere-
-E’ che sei ubriaco e ne vedi il doppio- gli fece Giuliano.
L’eco delle nostre risate vagò fra le lapidi e le cappelle e il cimitero non era più un luogo triste ma sembrava pervaso da una sottile magia che lo aveva trasformato in qualcosa di diverso.
Tutto era come sempre era stato, ma nulla sarebbe rimasto uguale.
Erasmo fece scattare l’accendino e con la fiamma iniziò a scaldare una briciola marrone che aveva nel palmo e Giuliano ruppe una sigaretta, sbriciolò con le dita il tabacco e lo distribuì uniformemente in un piccolo rettangolo di carta. La particella marrone venne frantumata e mescolata al tabacco. Giuliano arrotolò il rettangolo di carta, lo accese e cominciò ad aspirarne il fumo. Il cilindro bruciava lentamente spargendo per l’aria un odore dolce che ricordava quello dell’incenso e mi tornò in mente il giorno della Prima Comunione, la chiesa affollata e il parroco e le stuole infinite di chierichetti e l’atmosfera mistica e di attesa che c’era fra noi bambini, nelle prime file dei banchi.
Fabrizio ed io non avevamo mai provato a fumare e quando venne il nostro turno il fumo caldo ci bruciò in gola e nel naso facendoci tossire.
-Lo dicevo che eravate troppo piccoli- disse allegro Erasmo. Ridemmo tutti quanti e per far durare di più il fumo, dopo ogni tirata, lo soffiavamo nella bottiglia vuota del vermouth che chiudevamo subito con il pollice e in questo modo riuscimmo a fumare per altri due giri respirando dalla bottiglia.
Si parlò di ragazze, di Fiorella la bella pisella e di Arianna tutta panna e Fabrizio e io ascoltavamo estasiati e con la bocca aperta, ma la mente era stordita e i pensieri confusi dall’alcool e dal fumo.
Ci riprendemmo solamente quando il vento ci schiaffeggiò in viso mentre, seduti sul sellino posteriore dei motorini di Fausto e Giuliano, andavamo verso la foschia, in basso, alla ricerca di altri divertimenti. Nella nebbia che si avvicinava i nostri cuori erano scuri.
Quella mattina eravamo scesi dalla montagna correndo e giocando e ora eravamo invece lanciati verso la pianura, dimentichi dei progetti avventura sulla Monte dei Due Corni e tutto sembrava distante e nascosto già nelle pieghe di una memoria lontana.