Alberto Sciamplicotti
PETER
Nel 1992 alcuni alpinisti del Kazakistan erano nei pressi del secondo dei tre pilastri rocciosi posti lungo la cresta nord-est del monte Everest. Davanti a loro, seduta quasi alla base della grande zanna di pietra e ricoperta in gran parte dalla neve, scorsero improvvisamente la sagoma di una persona. Si avvicinaro a quello che sembrava, non tanto un uomo addormentato ma piuttosto qualcuno assorto, con il volto sereno, preso in qualche pensiero segreto. Aveva una tuta in piumino, foderata di un vistoso nylon rosso, sul viso una lunga barba costellata di piccoli cristalli di ghiaccio e sul capo un passamontagna nero. Non ebbero bisogno di indagare oltre: sapevano di aver ritrovato, dopo dieci anni, il corpo senza vita di Peter Boardman.
Nel 1982, lui e Joe Tasker erano stati chiamati da Chris Bonington a partecipare a una spedizione inglese il cui scopo era quello tentare di arrivare sulla cima del mondo per un nuovo itinerario, lungo l’interminabile cresta nord-est. Il 17 maggio di quell’anno, Boardman e Tasker erano stati visti per l’ultima volta, proprio nelle vicinanze del secondo pilastro. Poco più in basso di dove gli alpinisti del Kazakistan lo ritrovarono, sulla vetta del primo pilastro, c’era il punto da cui tredici giorni prima Joe, lui e Dick Renshaw erano ridiscesi al termine del primo tentativo che la spedizione aveva fatto per superare i tre pinnacoli di roccia. Sembrava che tutto stesse andando per il meglio quando, sulla vetta della cuspide, Renshaw era stato colpito da un piccolo malore causato dall’alta quota. Non aveva senso rischiare: d’accordo con Bonington, per non aggravare le condizioni di Dick, avevano subito cominciato la discesa che li avrebbe ricondotti ai campi bassi. Nei giorni seguenti Tasker e Boardman avevano recuperato le forze, in modo di poter attaccare nelle migliori condizioni il difficile tratto. Dopo una settimana di riposo, il 15 maggio, erano quindi ripartiti. Avevano passato la notte al campo 2 e il giorno seguente erano riusciti a raggiungere a 7850 metri la grotta scavata nella neve dove era situato il campo 3. Da qui avevano proseguito, superando di nuovo il primo pinnacolo e continuando così la salita verso la vetta dell’Everest. Dal campo base, osservandoli con teleobiettivi e binocoli, li avevano visti avviarsi verso la seconda delle zanne di pietra. Era stato allora che il vento era aumentato, le condizioni atmosferiche erano rapidamente peggiorate e gran parte della montagna era stata avvolta da nuvole che avevano impedito di continuare a seguire l’ascensione a chi era rimasto al campo base: l’ultima cosa che erano riusciti a vedere furono due figure che, camminando lentamente nella neve degli oltre 8000 metri, si inoltravano nella nebbia per sempre.
Joe e Peter erano alpinisti che avevano alle loro spalle una grande esperienza di alta quota. Insieme o con altri, erano riusciti in imprese di grande valore assoluto, realizzate di sovente in condizioni climatiche e meteorologiche difficili, condizione frequente in spedizioni alpinistiche come quelle himalayane, dove il campo base viene piantato a un’altezza di molto superiore a quella del Monte Bianco. Quando però dopo diversi giorni non si ebbero più notizie di Boardman e Tasker, fu drammaticamente chiaro che nemmeno la loro grande esperienza di alta quota era bastata questa volta per ricondurli a valle.
Furono fatte diverse ipotesi sulla loro scomparsa. Temperature di molte decine di gradi sotto lo zero, il vento forte e la scarsa percentuale di ossigeno presente oltre gli 8000 metri indeboliscono rapidamente qualunque fisico, anche il più allenato. Se poi, per qualunque ragione, è costante il perdurare di queste condizioni, può rapidamente sopraggiunge la morte per sfinimento. La lunga cresta che conduce verso la vetta dell’Everest si affaccia inoltre, nel versante Est, sulla ripida parete del Kangshung. Una manovra sbagliata, con la mente confusa dalla stanchezza, o un passo falso nella nebbia, conducono senza via di scampo verso i crepacci che, centinaia di metri più in basso, costellano in quel punto i piedi del Chomolungma.
Il non aver ritrovato il corpo di Joe Tasker sembrerebbe confermare queste ipotesi. Tasker potrebbe essere precipitato verso il ghiacciaio alla base della parete Est dell’Everest, Boardman invece morì di sfinimento mentre tentava probabilmente di scendere da solo dopo la disgrazia capitata all’amico.
Nel 1975, Peter aveva partecipato a un’altra spedizione all’Everest organizzata sempre da Bonington. In quell’occasione la vetta era stata raggiunta per una via aperta lungo la parete Sud-Ovest. Era il settimo tentativo che fatto da quel versante per cercare di superare l’impegnativa fascia rocciosa che si eleva dai 7925 metri. Il giorno successivo alla riuscita di Bonington e del suo compagno, Boardman era salito anche lui sul tetto del mondo insieme allo sherpa Pertemba. Dopo aver sostato qualche minuto in vetta era cominciata la discesa. Poco sotto la cima, dalla foschia era emerso come un fantasma, l’alpinista e cameramen Mick Burke. Voleva filmare la vetta dell’Everest e chiese a Peter di risalire con lui. Boardaman tentennò nel sentire la proposta: il tempo non era buono, una fitta nebbia avvolgeva ogni cosa, era già molto tardi. Inoltre sia lui che Pertemba erano stanchissimi per la salita fatta. Mick chiese allora che lo attendessero in quel punto: voleva infatti assolutamente fare qualche ripresa cinematografica della vetta e prendere alcune foto. Sarebbe quindi tornato in modo da poter fare la discesa insieme ai suoi compagni. Passò del tempo, troppo, le condizioni atmosferiche peggiorarono e alla fine fu chiaro che Burke non sarebbe più tornato dalla vetta dell’Everest: probabilmente, stanco, confuso dalla nebbia e dalla scarsa visibilità aveva sbagliato strada ed era precipitato. Con il cuore colmo di angoscia e disperazione Peter e lo sherpa, attesero comunque per oltre un’ora e mezza il suo ritorno. Alla fine iniziarono la discesa e Boardman dovette letteralmente trascinare verso il basso Pertemba, distrutto dalla stanchezza, dall’alta quota e prostrato psicologicamente. Nonostante la disgrazia, si era comunque trattato di un’impresa importantissima e per molti quello avrebbe potuto rappresentare l’apice di un’intera carriera alpinistica. Per Boardman si era trattato invece solo di un punto di partenza. La spedizione inglese era una di quelle a cui ben calzava questo termine così militaresco: molti uomini, grandi possibilità economiche di supporto, un’organizzazione ferrea in cui tutto era predisposto, e l’uso continuo delle bombole d’ossigeno per ridurre i problemi dell’alta quota. Insomma, un lavoro, anche se pericoloso, ma pur sempre un lavoro. Almeno era stato così che, al di là del dolore e delle sofferenze, Boardman aveva probabilmente catalogato quell’esperienza al suo ritorno in Gran Bretagna. Era stato anche per questo che aveva accettato senza indugio, l’invito di Joe Tasker a partecipare ad una spedizione leggera, loro due soli, allo Changabang. Tasker, quasi nello stesso periodo in cui Boardman era stato impegnato sull’Everest, aveva salito insieme a Dick Renshaw, nell’Himalaya del Garhwal, il Dunagiri lungo la cresta sud-est. In due, senza altri supporti e con scarse possibilità economiche, avevano affrontato e vinto una montagna di settemila metri. Mentre era impegnato nella scalata, Tasker aveva avuto modo di ammirare la ripida silhouette, interrotta solo da qualche chiazza di neve e ghiaccio persa fra le placche e gli strapiombi di granito, del Changabang. Così, al suo ritorno si era messo in contatto con Peter per organizzare una spedizione su quella montagna. Quando era arrivato il momento, per due mesi, avevano vissuto e lottato insieme fino a raggiungere la vetta realizzando un’impresa con una portata ben più vasta di quella dell’Everest. La loro non era stata solo una salita tecnicamente difficile, ma un contributo enorme a un modo differente di affrontare un progetto su una vetta himalayana, lontano per giunta da tutto quello che era stata la precedente spedizione all’Everest. Una scelta che era proseguita con le successive ascensioni, quella del Kangchenjunga, la terza fra le montagne più alte del mondo dopo l’Everest e il K2, quella sul Gauri Sankar, la montagna sacra degli sherpa, e quella alla Carstensz Pyramid, la montagna di calcare a forma di pinna di pescecane e la cui cima è la più elevata dell’Asia sudorientale. Tutte ascensioni portate a termine con lo stesso rigoroso stile. La salita alla Carstensz Pyramid l’aveva compiuta con sua moglie Hilary e di quelle settimane, passate con lei nella giungla della Nuova Guinea, insieme a portatori provenienti da tribù ferme all’età della pietra, serbava un ricordo particolare.
La salita dell’Everest per la lunghissima cresta nord-est con la spedizione di Bonigton rientrava ancora nello stesso progetto: ridare dignità e senso alle impegnative salite himalayane, frustrate già allora da progetti che anteponevano il raggiungimento della vetta allo stile e all’etica con cui lo si faceva. Una dignità e un senso simili a quelli che Boardman aveva cercato di dare alla sua vita, con la ricerca continua di una coerenza che non fosse solo la proiezione di un ego. Come quando con Tasker, appena scesi dal Changabang, erano risaliti verso i pendii del Dunagiri per seppellire i componenti di una cordata americana precipitata. Li avevano calati in un creapaccio, adagiandoli uno accanto all’altro. In silenzio, avevano dedicato loro un momento di riflessione e poi, dopo aver recurato i pochi oggetti personali delle vittime, erano scesi verso l’unica superstite del gruppo. O come quando era partito per il Kangchenjunga e poi per il Gauri Sankar, inseguito dai sensi di colpa per non essere rimasto invece ad accudire suo padre malato. A differenza di molti dei frequentatori delle alte quote e delle vette himalayane, non era stato un ego smisurato, o la voglia di gloria e di celebrità, ma il continuo volersi mettere in discussione, di fronte a se stesso e agli altri, che lo aveva guidato per luoghi lontani fino a ritrovarsi con il suo amico Joe, al termine della loro esistenza, su una roccia in mezzo al vento della cresta nord-est dell’Everest.